giovedì 16 luglio 2009

Diario dalla Palestina, primo reportage

Verso Hebron

Arrivare in Palestina é come mettere in discussione tutte le certezze che si hanno a proposito di questa terra. Significa fare un fagotto delle idee e dei pregiudizi accumulatisi in anni di letture e studi e metterlo da parte, aprendosi a percepire il conflitto e la societá in una prospettiva del tutto nuova.

Perlomeno questo é ció che é capitato a me, a cominciare dalla geografia di questo posto, che ti si presenta in modo completamente inaspettato. La geografia politica e urbana della Palestina é diventato un soggetto di studio. Dacché esistono gli stati nazione, secondo una delle teorie universalmente accettate della scienza politica, la continuitá geografica e territoriale é una delle caratteristiche dello stato come entitá. In Paestina questa continuitá territoriale é negata, interrotta da innumerevoli insediamenti ebraici (piú di 100 se si considerano quelli non ancora legalizzati dalle autoritá israeliane, in cui abitano circa 300.000 coloni su una popolazione di 2.5 milioni di palestinesi), dai blocchi stradali, dai check points, dalle terre e dalle strade confiscate e rese percorribili solo per i coloni ebraici, dal muro.

Percorrendo la strada dall’aeroporto di Tel Aviv a Betlemme, dove il nostro gruppo di 17 volontari da tutta l’Europa deve terminare il periodo di training, questa geografia ti si presenta, reale per la prima volta. Di fronte alle colline di Betlemme si estende Gillo, uno dei piú grandi insediamenti di tutta la Cisgiordania. Un insieme di palazzi alti e bianchi, costruiti a schiera, sono l’elemento costante delle colonie. Gli edifici sono perlopiú costruiti in larghezza, in modo da occupare piú superficie possibile. Qui anche l’architettura diventa arrogante, simbolo di una violazione palese del diritto internazionale. Questo scenario ci si ripresenta ovunque, su ogni strada, secondaria o principale che sia, tant’é che dopo due mesi in Palestina siamo capaci di riconoscere ogni singolo insediamento che incontriamo andando da Hebron a Gerusalemme e su fino a Ramallah.

Finito il periodo di training a Betlemme sei di noi sono stati assegnati a Hebron. La notizia é arrivata un pó come una doccia fredda. L’idea che ognuno di noi aveva di Hebron era quella di un posto pericoloso e problematico. Abbiamo cominciato ad agitarci quando i responsabili del progetto hanno iniziato ad incoraggiarci con pacche sulle spalle.

Non potró mai dimenticare il mio primo giorno ad Hebron. Quando si entra in cittá si ha l’impressione di essere in una qualsiasi cittá del Medio Oriente, palazzi bianchi e alti, con i tetti piatti, costruiti senza un grande senso estetico e sembrerebbe senza un vero e proprio piano urbanistico a giudicare dalla loro disposizione. Ma l’impatto, lo schiaffo in faccia si ha quando si entra nella cittá vecchia, un posto unico in tutta la sua impotente desolazione. Le strade sono quasi deserte, i negozi aperti poche decine, i turisti inesistenti, gli acquirenti ancora meno. La presenza di un insediamento ebraico nel centro della cittá ha fatto di Hebron una cittá fantasma, l’unico posto in Cisgiordania a subire l’occupazione dall’interno del centro storico. Quando si entra ci si accorge subito di questa presenza ingombrante: una torre militare a destra sta a guardia dell’incolumitá dei coloni. Pochi metri e ci si ritrova con il naso all’insú, increduli di quel che si vede: una fitta rete di protezione é collocata tra il piano terra e il primo piano degli edifici. Sulla rete giacciono ogni tipo di rifiuti, pannolini sporchi, bottiglie di acidi e sostanze chimiche, grosse pietre. I coloni che occupano il centro storico vivono in case adiacenti alle strade che i palestinesi percorrono ogni giorno Dai piani alti delle loro case tirano addosso ai palestinesi ogni genere di oggetto, e questo spiega la necessitá delle reti di protezione. Con il tacito consenso delle autoritá militari i coloni si sono impossessati di attivitá commerciali e scuole, rendendo la vita in cittá un incubo.Piú di 1500 attivitá commerciali sono state chiuse dall’esercito al fine di garantire un’area di sicurezza attorno all’insediamento, mentre molte altre sono state chiuse dai proprietari, a seguito del crollo della vita economica di ció che prima era un fiorente centro commerciale.

La storia dell’occupazione di Hebron risale al 1967. Durante la guerra dei sei giorni l’esercito Israeliano occupa la Cisgiordania e l’anno successivo un gruppo di ebrei ultraortodossi, fingendosi turisti, si insediano in un albergo nella cittá vecchia, dando vita al primo insediamento, riconosciuto piú tardi dalle autoritá israeliane. Da allora Hebron é stato teatro di scontri e violenze, culminate nel massacro nella moschea di Abramo. Nel 1994 un colono ha aperto il fuoco nella moschea durante l’ora di preghiera, uccidendo 29 palestinesi. E’ da allora che la comunitá internazionale ha deciso di istituire una forza internazionale di monitoraggio (TIPH, Temporary International Presence in the City of Hebron) al fine di proteggere i palestinesi residenti dagli attacchi dei coloni e dalla violenza dei soldati.

La presenza dei coloni in cittá é tutt’altro che discreta: le torrette di controllo sui tetti, le reti mimetiche sistemate introno agli edifici, i soldati in giro per le strade con gli M16 puntati sui passanti. Per accedere ai vari settori della cittá bisogna attaversare diversi check points. Dietro uno di questi check points si trova la moschea (e sinagoga) di Abramo. La tradizione vuole che Abramo abbia fatto seppellire qui tutta la sua famiglia, e questo rende il luogo sacro sia per gli ebrei che per i musulmani, essendo Abramo figura centrale dell’ebraismo e dell’islam. A seguito di questa situazione Hebron resta una zona conflittuale, la violenza é sopita ma sempre pronta ad esplodere. Meno di due mesi fa un ragazzo palestinese di quindici anni é stato ucciso dai soldati proprio di fronte alla moschea, sembra che stesse lanciando delle pietre, ed i soldati sono autorizzati a sparare in circostanze come queste.

Passeggiare per le strade di Hebron é comunque un’esperienza umana profonda. Dopo le prime due visite i residenti ti riconoscono, i commercianti capiscono che non sei un turista e non cercano piú di venderti qualcosa. Quando capiscono che sei un volontario e che sei arrivato dall’Europa per lavorare e vivere con loro, ogni stretta di mano, ogni abbraccio ed ogni sguardo é una dimostrazioni di affetto e di stima.

Nella cittá vecchia tutti hanno qualcosa da raccontare e tutti sono abituati alle telecamere e alle macchine fotografiche di osservatori internazionali, giornalisti e attivisti che monitorano costantemente la situazione in centro. E’ con loro che incontriamo il piú grande dei figli della famiglia Aiwaiwe, ben conosciuta in tutta Hebron in quanto il tetto della loro casa é occupato da una postazione militare ed é costantemente bersaglio della violenza dei coloni residenti nell’insediamento di Abraham Avinu, che vorrebbero avere la casa per se. La visita alla casa piú famosa di Hebron é un obbligo. Il figlio maggiore ci accompagna in casa sua e sul tetto. Qui conosciamo tutta la famiglia, la mamma e i sette figli, il padre é al lavoro. Mentre sorseggiamo del the e giochiamo con i bambini ci raccontano le loro esperienze e la loro lotta quotidiana nel resistere senza abbandonare la casa, sotto l’occhio costante dei militari a 15 metri da noi. Basma, la madre, ha perso due bambini: un primo aborto causato da una caduta dalle scale durante una colluttazione con un soldato, un secondo dal mancato arrivo dell’ambulanza, che i soldati israeliani non hanno fatto passare. Il bambino piú piccolo, Saad, soffre di disturbi psicologici. Spesso i coloni attaccano la casa, piombando nelle stanze nel cuore della notte e terrorizzando i bambini. In uno degli ultimi attacchi, risalenti al 2008, i coloni hanno attaccato la casa con delle bottiglie incendiarie, distruggendo completamente una stanza all’ultimo piano, che la famiglia ha deciso di mantenere cosí per mostrare agli osservatori cosa vuol dire vivere ogni giorno con questa minaccia alle porte. Las nostra chiacchierata si prolunga fino a pomeriggio inoltrato. AL calar del sole non é piú consentito stare sul tetto, e un gruppo di soldati ce lo ricorda, urlandoci di andare via e di non “mischiarci con gli arabi”. Ce ne andiamo quasi subito, non vogliamo che per colpa nostra la famiglia sia aggredita o maltrattata.

Due storie aldiqua del muro

La geografia della Palestina é ormai anche la geografia del muro. Dopo lo scoppio della seconda intifada nel settembre 2000 e dopo una serie di attacchi terrorístici a Gerusalemme e Tel Aviv, le autoritá israeliane hanno deciso di costruire un muro di separazione tra i terrotori palestinesi e lo stato di Israele. Il progetto del muro copre una superficie di centinaia di chilometri. Il suo tragitto separa strade e villaggi, terre e risorse dai loro legittimi proprietari. Alcune cittá, come Qalqilia, a nord della Cisgiordania, sono completamente circondate, e questo rende la situazione invivibile per gli abitanti.

Il progetto del muro risponde anche ad una precisa strategia di umiliazione. Non solo viene costruito rendendo la mobilitá dei palestinesi difficile, ma viene costruito sulle terre dei palestinesi, ai quali vengono espropriate, privandoli di un importante se non unica fonte di reddito e di sopravvivenza. In molti villaggi, soprattutto quelli a vocazione agricola, il muro significa la perdita delle attivitá economiche. E’ in alcuni di questi villaggi che sono nate associazioni di palestinesi, contadini e proprietari, che manifestano settimanalmente contro l’espropriazione delle terre e la costruzione del muro. A loro si sono aggiunti attivisti israeliani e internazionali. La loro presenza é una sorta di assicurazione sulla vita mi dice Beka, una dei coordinatori della protesta, se c’é una nutrita presenza di internazionali i militari fanno di tutto per evitare scontri violenti e per prevenire i coloni dall’attaccare.

Questa é la storia di Beit Ummar, nel distretto di Hebron,e di Bi’lin, in quello di Ramallah.

Un sabato mattina la mia coinquilina spagnola ed io decidiamo di raggiungere la manifestazione a Beit Ummar. Il villaggio di Safa, nella municipalitá di Beit Ummar (Hebron) confina con l’insediamento di Kefar Ezyon. Da aprile la corte militare ha stabilito che per questioni di sicurezza i proprietari della terra non possono piú raccogliere ció che hanno piantato, dichiarando l’area una Closed Military Zone. Raggiungiamo il gruppo di attivisti all’entrata del villaggio e saliamo verso la collina. Il gruppo di testa é formato da un nutrito gruppo di attivisti israeliani, con l’incarico gravoso di mediare con i soldati e i coloni. Marciamo in un sentiero di campagna per venti minuti buoni.e capiamo immediatamente che siamo arrivati al confine con l’insediamento. In realtá l’insediamento in se non é visibile, ma all’improvviso un gruppo di coloni si scaglia giú dalla collina urlando. La scena sembra tratta da uno di quei film sulle invasioni barbariche. Ragazzi con il volto coperto vengono giú correndo e urlando, tirando pietre nella nostra direzione. Bidoni di latta cominciano a rotolare giú, gesto del disprezzo estremo che queste persone chiuse nella loro arroganza e nelle loro violenza mostrano nei confronti del resto del genere umano. Io e la mia coinquilina spagnola rimaniamo basite. Prima di procedere cerco di inquadrare con lo zoom della fotocamera la scena per verificare che i coloni non abbiano dei fucili. Non sono armati perció andiamo avanti. Le contrattazioni vanno avanti per mezz’ora. Gli attivisti mostrano ai militari un documento delle autoritá israeliane che dichiara illegale l’uso del termine “area militare chiusa” in zone agricole, in quanto questa ha il solo effetto di danneggiare l’economia palestinese. Cerchiamo di dimostrare che stanno violando la loro stessa legge, ma non sembra che questa sia la loro principale preoccupazione. Rimaniamo per mezz’ora ad aiutare i contadini a raccogliere i loro prodotti, ma il braccio di ferro con i soldati é durato abbastanza, stando alle parole degli attivisti di vecchia data. Decidiamo che é tempo di andare. Tutto il gruppo é ormai sulla via del ritorno quando i soldati israeliani decidono di attaccarci per arrestare il proprietario della terra, che ha la colpa di aver violato un ordine militare accedendo alla terra e anche e di aver filmato e documentato tutto. I militari si gettano su di lui per portarlo via, ma fortunatamente gli attivisti israeliani fanno scudo e si gettano a terra per proteggerlo. Qui comincia lo scontro tra il gruppo e i militari, che non risparmiano ai piú audaci tra di noi qualche bella manganellata data con il manganello di legno, senza l’optional della gomma che di solito lo ricopre per attutire il colpo.Alla fine della giornata si riesce ad evitare che il proprietario venga arrestato. Hanno peró portato via tre degli attivisti, che verranno rilasciati dopo qualche ora con l’obbligo di non tornare a Beit Ummar per le tre settimane successive.

Venerdí 3 di questo mese invece decido di raggiungere la protésta a Bi’lin. Le voci che questa sia una manifestazione violenta corrono, quindi decido di portare qualcosa per proteggermi dai gas lacrimogeni. Il viaggio per Ramallah é lungo, si passa attraverso una vallata desertica chiamata Valle del Fuoco perché i tassisti palestinesi non sono autorizzati a passare per Gerusalemme, quindi ci si deve girare intorno. A Bi’lin trovo un enorme gruppo di attivisti internazionali, tant’é che c’é persino qualcuno che ne approfitta per vendere prodotti tipici di artigianato locale. Arrivano le automobili di TV e giornali. I giornalisti iniziano il loro rituale di vestizione: giubbotti anti-proiettile, caschi e maschere anti-gas. Dopo l’uccisione di un attivista palestinese durante la manifestazione ad aprile tutti preferiscono prevenire ogni genere di pericolo. Il gruppo parte quasi subito ed io mi porto avanti per fotografare il corteo. Il tempo di arrivare alla recinzione che protegge l’area dove verrá costruito il muro che parte la sassaiola. Alcuni tra gli attivisti palestinesi cominciano a tirare pietre in direzione dei pochi soldati che proteggono questa sorta di avamposto. Questo segna la fine della manifestazione, quello che ne segue é un delirio di gas lacrimogeni e bombe sonore. Dopo il terzo attacco resto praticamente intossicata, ma cerco di andare avanti per documentare da vicino gli scontri. Fortunatamente un attivista palestinese mi presta la sua maschera anti gas e riesco a fare delle foto da distanza ravvicinata. I soldati contuinuano a sparare senza alcun criterio e da piú lati, qualcuno viene colpito dai lacrimogeni, che bruciano a contatto con il corpo. Uno di questi mi si infila sotto la maglia provocandomi prurito e irritazioni per il resto della giornata.

Quando é ormai tempo di andare i soldati lanciano l’ultimo attacco, questa volta massiccio. Non ho piú la maschera. La pioggia di lacrimogeni ci colpisce proprio a metá via tagliandoci la strada. Non vediamo piú niente e non riusciamo a respirare. Comincio a correre con gli occhi chiusi e mi infilo sotto un albero seguendo la voce di qualcuno. Aspettiamo che l’effetto del gas finisca e ce ne andiamo. Insieme ad un enorme mal di testa mi porto dietro l’impressione che questa manifestazione non sia stata utile a niente.

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