martedì 25 agosto 2009

Storie dai campi

Una delle vene aperte della Palestina sono i campi dei rifugiati. Oggigiorno non ha neanche piú senso chiamarli campi. All’inizio infatti questi erano perlopiú composti da tende, che ne rendevano il carattere temporaneo. Dopo sessanta anni, i campi hanno cambiato il loro volto, si sono trasformati in quartieri periferici attorno alle cittá a cui sono stati costruiti. Le persone che vi vivono e i loro discendenti invece restano rifugiati.

I campi per i rifugiati sono stati costruiti tra il 1948 e il1950, a seguito del primo conflitto arabo-israeliano. Nel corso del conflitto, che ha dato vita allo stato di Israele, la popolazione che si trovava sui territori che adesso fanno parte di Israele é stata costretta a lasciare le proprie case e i propri averi. I palestinesi ricordano questo episodio con in nome di Nakba, catastrofe, e lo commemorano ancora oggi, come il giorno che ha segnato la fine della loro vita come persone libere. Le famiglie nei campi si tramandano ormai da piú di quattro generazione le pesanti chiavi di ferro delle loro case, con la speranza un giorno di potervi ritornare, anche se molte di quelle case non esistono piú o sono state occupate da famiglie israeliane.

Un campo non é facilmente riconoscibile ad un’occhiata frettolosa, data la somiglianza con i quartieri poveri delle cittá mediorientali. Si riconosce invece quando vi si passa accanto, a piedi. Il contrassegno azzurro dell’UNRWA (United Nation Relief Work Agency for Palestinia Refugees) ci dice che la zona in cui stiamo passando é un campo. In tutta la Cisgiordania ne esistono 19, per una popolazione di 486.479 persone (una percentuale molto alta, se si considera che la popolazione della Cisgiordania si aggira attorno a 1.8 milioni), ma il numero aumenta quando lo sguardo si allarga sui campi-rifugiati in tutto il Medio Oriente. Le ultime stime parlano di 4.6 milioni di palestinesi che vivono da piú di sessant’anni con lo status di rifugiati .

Data la consistenza demografica dei rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno nelle loro terre a conflitto terminato é una delle questioni piú spinose e controverse che ha accompagnato tutto il cammino dei negoziati, ed é uno delle principali ragioni di stallo dei processi di pace, insieme alla questione dello status di Gerusalemme. Lo stato di Israele si rifiuta infatti di riconoscere il diritto al ritorno di tutti i rifugiati, in nome della tutela dell’ebraicitá dello stato che verrebbe minacciata dal peso demografico della popolazione palestinese.

Vivere in un campo significa essere piú poveri della media della povertá in palestina, avere meno accesso alle srutture pubbliche ed una mobilitá assai piú ridotta. Queste condizioni, protrattesi per sei decenni, hanno reso i campi delle zone sensibili, dove il malcontento si é sedimentato e accresciuto. Non é un caso che nei campi si trovino rappresentate le posizioni piú radicali e che sia proprio nei campi che le organizzazioni terroristiche riescono a reclutare ragazzi che vengono trasformati in attentatori. In effetti qui, per molti ragazzi morire non é la piú terribile delle opzioni.

Personalmente, la questione dei rifugiati mi ha sempre interessato, e una volta in Palestina una delle prime cose che ho voluto fare é stata visitare qualcuno dei campi disseminati in tutta la Cisgiordania. Il mio viaggio mi porta verso Nablus, a nord, quasi tre ore e mezzo da Hebron. La mia prima tappa é Balata, il campo-rifugiati piú grande di tutta la Cisgiordania, con una popolazione di 21,445 abitanti. Balata é stato il centro della seconda intifada, la fabbrica dei terroristi, secondo le fonti israeliane. Per quanto conoscessi un pó la realtá dei campi, entrare a Balata mi toglie il fiato. In Palestina l’iconografia é ovunque, ma nei campi é violenta, pesante, senza speranza. I poster di centinaia di ragazzi con il mitra in mano campeggiano su tutti i muri. Chiedo al mio accompagnatore di spiegarmi il significato di questo delirio di immagini. Alza le spalle e mi dice: “Martiri”. Adesso realizzo, per la prima volta, quello che ho sempre sentito e studiato. Martiri, centinaia, bambini e ragazzi, non piú grandi di diciotto anni. Gli chiedo cosa voglia dire martiri. L’idea che avevo era che un martire é colui che si immola per una causa, e qui in Palestina mi sembrava che questo termine cosí religioso fosse applicabile a coloro i quali si sono fatti saltare in aria negli autobus di Tel Aviv e Gerusalemme. Ma il numero non coincide, questi martiri sono troppi e non ci sono stati cosí tanti attentati in Israele. Piú tardi capisco. La maggior parte di queste persone sono state uccise dai soldati israeliani, che durante l’ultima intifada hanno bombardato il campo piú volte. Non importa che tu sia morto al lavoro o durante il sonno, questo é un conflitto, e morire per mano nemica ti rende un martire.

Il campo é piccolo per ospitare quasi 22 mila persone. Le case sono costruite l’una sull’altra. Le autoritá israeliane hanno proibito di costruire in larghezza, per evitare che il campo si estenda. Questo rende le condizioni abitative precarie, per una popolazione che cresce ogni anno. Le strade sono cosí piccole che ci si cammina in fila indiana. Riesco a fatica a immaginare come l’esercito possa fare irruzione in un posto cosí stretto. Chiedo al mio accompagnatore come questo sia possibile. Mi dice che l’esercito applica due strategie: a volte demolisce la casa dove dovrebbe trovarsi la persona che cercano, e questo ha delle conseguenza devastanti se si considera che la densitá abitativa delle case nei campi é di almeno di 5 persone per ogni abitazione. Un’altra strategia é quella di procedere da una casa all’altra attraverso dei grandi fori nelle pareti, in una logica che mi sembra piú quella di una punizione collettiva che di una misura di sicurezza.

Il cemento rende il calore insopportabile. Il mio accompagnatore mi porta in un posto che a prima vista mi sembra un giardino. E’ un piccolo spazio ma fresco, con degli alberi. Non ci metto molto per capire che questo posto non é piú un giardino, é una sorta di piccola cappella dove sono stati seppelliti quattro membri della stessa famiglia uccisi dai missili israeliani durante il bombardamento del campo nel 2002. Due avevano meno di diciotto anni. Alcuni membri della famiglia sono li, a commemorare i loro morti. Non ho il coraggio di chiedere niente, non so cosa si possa provare nel perdere qualcuno durante un bombardamento, ma comincio a sentire dentro di me che se in ogni famiglia c’é almeno un morto, il passo verso la vendetta, qualunque forma essa abbia, non é lungo. Sento che se la morte ti circonda ogni giorno, questa ti diventa familiare, e non é piú la peggiore delle soluzioni.
Non so se il mio accompagnatore mi abbia letto negli occhi questo pensiero, ma mi guarda fisso e mi dice: “Non ce la facciamo piú con tutti questi morti, non abbiamo neanche piú lacrime per piangerli. Vogliamo vivere in pace, vogliamo che i nostri ragazzi non muoiano. Siamo stanchi”.
Chissá quante volte l’ho sentita questa frase, ma per la prima volta la sento reale, ed é una sensazione, un brivido che non riesco a dimenticare.

Finisco la mia visita a Balata al centro per i giovani che hanno costruito qualche anno fa. Qui cercano di offrire ai ragazzi una dimensione diversa della vita, piú allegra, con delle speranze per il futuro. Insegnano musica, arte, danza, quando i fondi glielo permettono, dato che i governi tagliano ogni anno i fondi destinati all’UNRWA. Mi sento piú leggera adesso. Nonostante la presenza asfissiante della morte e della guerra, c’é qualcuno che spera nel futuro.

Il mio viaggio prosegue verso Askar, sempre nella municipalitá di Nablus. Askar vive una situazione divesa dagli altri campi. Nel 1964 il campo si é esteso, e l’UNRWA, dato che l’agenzia non ha giurisdizione amministrativa sul territorio, non ha potuto riconoscere questa nuova parte, che pertanto non gode di nessun tipo di sostegno da parte delle Nazioni Unite. Una popolazione di quasi quindicimila abitanti é costretta a usufruire dei servizi sanitari e scolastici dei villaggi vicini o di Balata, il che rende la situazione ancora piú precaria in termini di accesso ai servizi per la popolazione di tutta l’area.

Il mio viaggio finisce a Arroub, sulla strada tra Hebron e Betlemme. Questo campo ospita quasi diecimila persone e fronteggia gli stessi problemi degli altri in termini di risorse. L’acqua manca per piú giorni alla settimana, c’é un solo dottore che non solo si prende cura della popolazione del campo, ma anche di quella dei villaggi vicini che accedono ai servizi sanitari di Arroub. Un totale di quasi ventiduemila persone sono seguite da un solo medico.

Al mio arrivo sono letteralmente circondata da bambini festanti e rumorosi. Sono gli ultimi giorni di scuola e tra breve avranno gli esami. Mi chiedono l’indirizzo e-mail e mi scongiurano di ritornare. Qui non devi fare molto per farti apprezzare, a molti che come i rifugiati si sentono isolati e un pó messi da parte anche dalle loro autoritá politiche, basta la presenza anche di un solo internazionale a farli sperare, o almeno a rallegrare la giornata con qualcosa di nuovo. Ahmed, il responsabile UNRWA del campo, mi salva da questo pacifico attacco. Mi mostra le stutture del campo. Qui hanno addirittura una piscina (anche se solo per i ragazzi, almeno temporaneamente), una sala per le feste, una scuola e progettano un campo di calcio. Benché anche qui la situazione non sia facile, non si trovano per le strade le immagini dei ragazzi uccisi dall’esercito, non si parla di guerra e di martiri. Qui l’esercito entra di notte (azione che é peraltro contraria al diritto internazionale, che proibisce alle forze armate di penetrare in aree occupate dai rifugiati e protette dalle Nazioni Unite), spara qualche colpo in aria, intimorisce, ma non uccide e non demolisce le case. E’ anche per questo che non ci sono martiri ad Arroub, non ci sono terroristi.

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