sabato 29 agosto 2009

Coloni e colonie in Cisgiordania

La presenza di insediamenti israeliani in Cisgiordania é un fenomeno poco conosciuto all’estero ma tristemente famoso in Palestina. In genere l’opinione pubblica internazionale non ha ben chiara la funzione di questi villaggi nel cuore dei territori all’interno della linea verde, cioé della zona che era stata destinata dagli accordi internazionali alla costruzione di uno stato palestinese prima della guerra del 1967. La massiccia costruzione di colonie ha inizio dopo la guerra dei sei giorni nel 1967, a seguito della quale Israele occupa la Cisgiordania e Gaza, e si concentra tra gli anni Settanta e Ottanta. Le colonie sono illegali secondo il diritto internazionale. La loro costruzione viola la quarta Convenzione di Ginevra (articolo 49) che vieta il trasferimento di cittadini dal proprio territorio ad un territorio occupato a seguito di un conflitto; questa pratica viola anche i Regolamenti dell’Aja, stabiliti nel 1910, che impediscono alla potenza occupante di intraprendere cambiamenti definitivi sui territori che occupano.

Gli insediamenti vengono costuiti espropriando terreni e demolendo case di proprietá palestinese. Le strategie con cui il governo israeliano cerca di dare una parvenza legale a pratiche che sono completamente fuorilegge vanno dal ricorso alla confisca di terreni per scopi militari, alla designazione della terra come terra statale, fino al considerare la terra come proprietá di assente (palestinesi che vivono all’estero per esempio) e l’esproprio per necesitá pubbliche. Una volta confiscata la terra destinanta all’insediamento ai palestinesi non é piú consentito l’accesso e questo significa la perdita di importanti risorse economiche o di beni quali case e terreni.

Con il tempo le colonie sono state riconosciute parte dello stato di Israele, benché la Cisgiordania non sia territorio israeliano. Questo ha determinato uno status differente per le persone che abitano sullo stesso territorio, dando vita ad una discriminazione basata sulla cittadinanza. I coloni infatti sono cittadini di Israele e godono dei diritti garantiti loro dallo stato israeliano e rispondono ad un ordine giudiziario basato sul diritto civile. I palestinesi non sono protetti da alcun tipo di legge, fatta eccezione per quella militare e la legge giordana che ancora vige sui territori (la Giordania occupó i territori palestinesi nel 1948 e li restituí nel 1950), entrambe utilizzate in ottica punitiva.

Il controllo israeliano non si concentra solo sulle colonie in quanto tali. Tutti gli insediamenti sono infatti circondati da un anello di terra, che viene dichiarata “Zona Militare Chiusa” al fine di proteggere i coloni e al quale l’accesso ai palestinesi é vietato. Le colonie sono anche collegate tra loro da strade costruite ex novo sulle terre palestinesi (chiamate in gergo by-pass roads) o sottratte ai palestinesi, come la strada N 60 che collega la Cisgiorania da nord a sud e ai cui palestinesi é negato l’accesso, costringendoli a percorrere strade secondarie e di campagna, con grave danno per la loro mobilitá e le loro attivitá economiche e commerciali.

La presenza di colonie israeliane determina un clima di segregazione e umiliazione che diventa il fulcro della violenza, dell’alienazione e delle difficoltá di movimento per tutti i palestinesi, ma anche della mancata crescita economica, e tutto questo avviene in completa violazione del diritto internazionale.
La strategia che sta alla base di questa politica di espropriazione delle terre e della costruzione di nuovi insediamenti é quella di rendere l’occupazione permanente e di impedire nei fatti la creazione di uno stato palestinese. Infatti, a seguito della costruzione degli insediamenti (costruzine che ancora continua e contro la quale i potenti si stanno solo ora schierando, sulla scia di Obama), delle strade e del muro ció che resta della terra che un tempo doveva essere destinata allo stato palestinese é poco piú del venti percento, parcellizzato in piccoli villaggi e cittá separati tra loro, senza continuitá territoriale e senza risorse (le risorse minerarie, idriche e agricole sono in mano israeliana. Un esempio su tutti: gli abitanti del centro di Hebron hanno un consumo giornaliero massimo di acqua di 5 litri al giorno pro capite, mentre gli abitanti degli insediamenti intorno e dentro la cittá consumano piú di 165 litri di acqua al giorno pro capite. Senza considerare che l’Autoritá Palestinese e le municipalitá sono costrette a comprare la loro acqua dalle autoritá israeliane ad un prezzo cinque volte piú alto rispetto a quello pagato dai cittadini israeliani), il che rende le prospettive della possibiliá per i palestinesi di avere un giorno uno stato pressocché nulle.

Gli insediamenti peró non sono tutti uguali. Alcuni, la maggiorparte, rispondono alla strategia politica di impedire la creazione di uno stato palestinese (senza alcun dubbio questa strategia trionfa al momento in quanto, alla luce dei fatti, la presenza massiccia di colonie ha determinato la fine della possibilitá per i palestinesi di avere uno stato). L’ottanta per cento degli abitanti degli insediamenti vi vive in quanto riceve sussidi statali in temini fiscali e agevolazioni nell’acquisto di case e terreni. Molti cittadini israeliani si trasferiscono nelle colonie in vista di una prospettiva politica migliore di quella che potrebbero avere in Israele. Altri insediamenti, abitati pevalentemente da ebrei ultraortodossi e radicali, sono ispirati da una dottrina religiosa estremista che si nutre dell’idea che Israele appartiene agli ebrei e che tutti gli arabi devono essere cacciati, in nome di una giudaizzazione dello stato. E’ questo il caso degli insediamenti che soffocano Hebron, la cittá piú a sud della Cisgiordania.

Welcome to Hebron

Hebron é la cittá in cui vivo e lavoro, é la cittá dove vivono i miei amici e dove trascorro la maggior parte del mio tempo, é la mia casa qui in Palestina. Ma Hebron é anche una cittá fantasma, distrutta dall’interno, assediata da cinque insediamenti che ne soffocano l’economia, la libertá di movimento, la vita sociale dei palestinesi e di tutti coloro che vivono qui, rendendo ció che era uno dei pincipali centri economici e commerciali della Cisgiordania il posto piú vulnerabile della Palestina.

Hebron é strangolata dalla presenza di quattro insediamenti nel centro della cittá, il che la rende un posto unico nella sua singolare tristezza, essendo appunto la sola cittá della Cisgiordania ad avere i coloni nel suo centro storico. Questa presenza é determinata dal fatto che Hebron é una cittá sacra per ebrei e musulmani, essendo il patriarca Abramo seppellito qui insieme alla sua famiglia. Questa sacralitá ha spinto questi fanatici fautori della giudaizzazione della Palestina ad installarsi nel centro di questa popolosa cittá palestinese (Hebron é la cittá piú grande della Cisgiordania).

Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta 500 coloni hanno occupato il centro storico della cittá, impossessandosi di case e negozi di proprietá palestinese. Nonostante la chiara illegalitá di quest azione, lo stato di Israele ha riconosciuto tutti gli insediamenti costruiti in quest’area, rendendo legale la loro presenza. Il senso di impunitá per i coloni che ne scaturisce é chiaro quando si cammina per le vie della cittá vecchia. Check point, barriere e filo spinato squarciano un centro storico bellissimo, scavato tutto nella roccia, che si articola tra vicoli, gallerie e sottopassi e che non avrebbe niente da invidiare a quello di Gerusalemme, se non fosse per la presenza dei coloni. Non é difficile imbattersi in ragazzini e adolescenti arroganti che insultano i passanti arabi e internazionali, colpevoli di sostenere la causa palestinese. E’ anche probabile che non si limitino solo agli insulti, ma che inizino a tirare pietre e oggetti, costringendo la gente a rifugiarsi nei pochi negozi aperti o sotto le volte dei vicoli. Nelle torride giornate estive, quando l’acqua, giá cosí rara e bene prezioso soprattutto nel centro storico,diventa una risorsa piú che essenziale, i coloni rovesciano le cisterne che ogni famiglia ha sul tetto, costringendole a affrontare spese significtive per rimpiazzare le cisterne danneggiate o a restare senza acqua per i giorni a venire. Tutto questo avviene sotto gli occhi complici dei soldati, che dovrebbero intevenire per proteggere i palestinesi dagli attacchi quotidiani dei coloni, ma che in realtá li proteggono e a volte li sostengono nelle violenze contro i residenti.

Andare in centro cittá significa anche rendersi conto della violenza spirituale e intellettuale di queste persone. Sulle porte delle case e sulle serrande dei negozi campeggiano stelle di Davide e slogan che incoraggiano alla pulizia etnica della Palestina, metodi che tristemente ricordano quelli usati dai nazisti probabilmente contro i genitori e i nonni di queste persone. E’ disarmante rendersi conto che dopo tutto la sotia non insegni niente.

Hebron muore ogni giorno, soffocata da questo cancro tremendo che é l’occupazione. Alla fine degli anni Sessanta 7500 persone vivevano nel centro storico, oggi sono meno di 1500. Quando cala il solo Hebron si spegne, e diventa uno dei posti piú pericolosi della Cisgiordania, in quanto la sicurezza non é garantita da nessuno. Hebron é diventata ritrovo di delinquenti di ogni genere, dove la sicurezza non é garantita né dalla polizia palestinese che non puó entrarvi (il centro cittá, chiamato H2, é sotto esclusivo contollo delle autoritá israeliane) né dall’esercito israeliano che trae vantaggio dalla situazione, che rende Hebron un posto ancora piú debole e facilmente controllabile.

Tel Rumeida

Uno degli insediamenti di Hebron si chiama Tel Rumeida. Tel Rumeida é una bellissima collina da cui si gode del panorama di tutta la cittá vecchia. Al tramonto la cittá e la Moschea di Abramo, viste da qui, sono bellissime e per un attimo dimentichi dove ti trovi. Basta volgere lo sguardo peró per ritornare alla realtá e vedere le case dei coloni separate dal resto dell’ambiente da filo spinato e dal loro fanatismo insanabile. Tel Rumeida, esattamente come gli altri insediamenti, vive ogni giorno la presenza problematico di coloni violenti la cui ideologia é quella di occupare quante piú case possibile e costringere gli “arabi” ad andarsene. Ma Tel Rumeida é anche testimone di una vittoria, di una storia a lieto fine, é la storia del Media Center di Tel Rumeida.

Il Media Centre si trova in una casa che era stata precedentemente occupata dall’esercito israeliano.Come ho giá accennato in precedenza, una delle strategie usate per la costruzione e l’espanzione delle colonie é quella di dichiarare l’area o l’abitazione di interesse strategico e militare. Dopo qualche tempo in genere i soldati vanno via e lasciano subentrare i coloni. Nel 2006, la casa occupata dai militari viene abbandonata. Un gruppo di residenti palestinesi si rende conto che i coloni stavano preparando la casa in vista del loro ingresso. Da quel momento questo gruppo, sostenuto da attivisti israeliani e internazionali, hanno cominciato a presidiare la casa per evitare che fosse occupata. Uno degli attivisti palestinesi ottiene dal proprietario dell’abitazione, un palestinese residente a Gerusalemme, l’intestazione della casa. Da questo momento Issa, questo é il nome di questo ragazzo palestinese sorridente e combattivo, diventa il legale proprietario della casa. L’esercito all’inizio gli impedisce di entrare, ma il gruppo continua a presidiare per giorni la casa. Alla fine anche l’äarroganza della forza deve arrendersi di fronte alla legge: i documenti sono regolari e non puó essere impedito al legittimo proprietario di entrare in casa sua.

Il Media Centre di Tel Rumeida é ora un centro di aggregazione, dove la gente si ritrova per stare insieme e spezzare la volontá di esercito e coloni che mirano a rendere le condizioni di vita dei palestinesi disumane. Qui si insegnano le lingue, si impara a proteggersi dalle aggressioni con mezzi non violenti (per esempio ogni residente ha in dotazione una videocamera con cui vengono filmate le violenze e le aggressioni), si proiettano film e documentari, si sostengono psicologicamente i bambini e le famiglie, ma soprattutto si vive insieme e si condivide un’esperienza. A Tel Rumedia si ride molto, e questo é il piú bel modo di resistere.

martedì 25 agosto 2009

Storie dai campi

Una delle vene aperte della Palestina sono i campi dei rifugiati. Oggigiorno non ha neanche piú senso chiamarli campi. All’inizio infatti questi erano perlopiú composti da tende, che ne rendevano il carattere temporaneo. Dopo sessanta anni, i campi hanno cambiato il loro volto, si sono trasformati in quartieri periferici attorno alle cittá a cui sono stati costruiti. Le persone che vi vivono e i loro discendenti invece restano rifugiati.

I campi per i rifugiati sono stati costruiti tra il 1948 e il1950, a seguito del primo conflitto arabo-israeliano. Nel corso del conflitto, che ha dato vita allo stato di Israele, la popolazione che si trovava sui territori che adesso fanno parte di Israele é stata costretta a lasciare le proprie case e i propri averi. I palestinesi ricordano questo episodio con in nome di Nakba, catastrofe, e lo commemorano ancora oggi, come il giorno che ha segnato la fine della loro vita come persone libere. Le famiglie nei campi si tramandano ormai da piú di quattro generazione le pesanti chiavi di ferro delle loro case, con la speranza un giorno di potervi ritornare, anche se molte di quelle case non esistono piú o sono state occupate da famiglie israeliane.

Un campo non é facilmente riconoscibile ad un’occhiata frettolosa, data la somiglianza con i quartieri poveri delle cittá mediorientali. Si riconosce invece quando vi si passa accanto, a piedi. Il contrassegno azzurro dell’UNRWA (United Nation Relief Work Agency for Palestinia Refugees) ci dice che la zona in cui stiamo passando é un campo. In tutta la Cisgiordania ne esistono 19, per una popolazione di 486.479 persone (una percentuale molto alta, se si considera che la popolazione della Cisgiordania si aggira attorno a 1.8 milioni), ma il numero aumenta quando lo sguardo si allarga sui campi-rifugiati in tutto il Medio Oriente. Le ultime stime parlano di 4.6 milioni di palestinesi che vivono da piú di sessant’anni con lo status di rifugiati .

Data la consistenza demografica dei rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno nelle loro terre a conflitto terminato é una delle questioni piú spinose e controverse che ha accompagnato tutto il cammino dei negoziati, ed é uno delle principali ragioni di stallo dei processi di pace, insieme alla questione dello status di Gerusalemme. Lo stato di Israele si rifiuta infatti di riconoscere il diritto al ritorno di tutti i rifugiati, in nome della tutela dell’ebraicitá dello stato che verrebbe minacciata dal peso demografico della popolazione palestinese.

Vivere in un campo significa essere piú poveri della media della povertá in palestina, avere meno accesso alle srutture pubbliche ed una mobilitá assai piú ridotta. Queste condizioni, protrattesi per sei decenni, hanno reso i campi delle zone sensibili, dove il malcontento si é sedimentato e accresciuto. Non é un caso che nei campi si trovino rappresentate le posizioni piú radicali e che sia proprio nei campi che le organizzazioni terroristiche riescono a reclutare ragazzi che vengono trasformati in attentatori. In effetti qui, per molti ragazzi morire non é la piú terribile delle opzioni.

Personalmente, la questione dei rifugiati mi ha sempre interessato, e una volta in Palestina una delle prime cose che ho voluto fare é stata visitare qualcuno dei campi disseminati in tutta la Cisgiordania. Il mio viaggio mi porta verso Nablus, a nord, quasi tre ore e mezzo da Hebron. La mia prima tappa é Balata, il campo-rifugiati piú grande di tutta la Cisgiordania, con una popolazione di 21,445 abitanti. Balata é stato il centro della seconda intifada, la fabbrica dei terroristi, secondo le fonti israeliane. Per quanto conoscessi un pó la realtá dei campi, entrare a Balata mi toglie il fiato. In Palestina l’iconografia é ovunque, ma nei campi é violenta, pesante, senza speranza. I poster di centinaia di ragazzi con il mitra in mano campeggiano su tutti i muri. Chiedo al mio accompagnatore di spiegarmi il significato di questo delirio di immagini. Alza le spalle e mi dice: “Martiri”. Adesso realizzo, per la prima volta, quello che ho sempre sentito e studiato. Martiri, centinaia, bambini e ragazzi, non piú grandi di diciotto anni. Gli chiedo cosa voglia dire martiri. L’idea che avevo era che un martire é colui che si immola per una causa, e qui in Palestina mi sembrava che questo termine cosí religioso fosse applicabile a coloro i quali si sono fatti saltare in aria negli autobus di Tel Aviv e Gerusalemme. Ma il numero non coincide, questi martiri sono troppi e non ci sono stati cosí tanti attentati in Israele. Piú tardi capisco. La maggior parte di queste persone sono state uccise dai soldati israeliani, che durante l’ultima intifada hanno bombardato il campo piú volte. Non importa che tu sia morto al lavoro o durante il sonno, questo é un conflitto, e morire per mano nemica ti rende un martire.

Il campo é piccolo per ospitare quasi 22 mila persone. Le case sono costruite l’una sull’altra. Le autoritá israeliane hanno proibito di costruire in larghezza, per evitare che il campo si estenda. Questo rende le condizioni abitative precarie, per una popolazione che cresce ogni anno. Le strade sono cosí piccole che ci si cammina in fila indiana. Riesco a fatica a immaginare come l’esercito possa fare irruzione in un posto cosí stretto. Chiedo al mio accompagnatore come questo sia possibile. Mi dice che l’esercito applica due strategie: a volte demolisce la casa dove dovrebbe trovarsi la persona che cercano, e questo ha delle conseguenza devastanti se si considera che la densitá abitativa delle case nei campi é di almeno di 5 persone per ogni abitazione. Un’altra strategia é quella di procedere da una casa all’altra attraverso dei grandi fori nelle pareti, in una logica che mi sembra piú quella di una punizione collettiva che di una misura di sicurezza.

Il cemento rende il calore insopportabile. Il mio accompagnatore mi porta in un posto che a prima vista mi sembra un giardino. E’ un piccolo spazio ma fresco, con degli alberi. Non ci metto molto per capire che questo posto non é piú un giardino, é una sorta di piccola cappella dove sono stati seppelliti quattro membri della stessa famiglia uccisi dai missili israeliani durante il bombardamento del campo nel 2002. Due avevano meno di diciotto anni. Alcuni membri della famiglia sono li, a commemorare i loro morti. Non ho il coraggio di chiedere niente, non so cosa si possa provare nel perdere qualcuno durante un bombardamento, ma comincio a sentire dentro di me che se in ogni famiglia c’é almeno un morto, il passo verso la vendetta, qualunque forma essa abbia, non é lungo. Sento che se la morte ti circonda ogni giorno, questa ti diventa familiare, e non é piú la peggiore delle soluzioni.
Non so se il mio accompagnatore mi abbia letto negli occhi questo pensiero, ma mi guarda fisso e mi dice: “Non ce la facciamo piú con tutti questi morti, non abbiamo neanche piú lacrime per piangerli. Vogliamo vivere in pace, vogliamo che i nostri ragazzi non muoiano. Siamo stanchi”.
Chissá quante volte l’ho sentita questa frase, ma per la prima volta la sento reale, ed é una sensazione, un brivido che non riesco a dimenticare.

Finisco la mia visita a Balata al centro per i giovani che hanno costruito qualche anno fa. Qui cercano di offrire ai ragazzi una dimensione diversa della vita, piú allegra, con delle speranze per il futuro. Insegnano musica, arte, danza, quando i fondi glielo permettono, dato che i governi tagliano ogni anno i fondi destinati all’UNRWA. Mi sento piú leggera adesso. Nonostante la presenza asfissiante della morte e della guerra, c’é qualcuno che spera nel futuro.

Il mio viaggio prosegue verso Askar, sempre nella municipalitá di Nablus. Askar vive una situazione divesa dagli altri campi. Nel 1964 il campo si é esteso, e l’UNRWA, dato che l’agenzia non ha giurisdizione amministrativa sul territorio, non ha potuto riconoscere questa nuova parte, che pertanto non gode di nessun tipo di sostegno da parte delle Nazioni Unite. Una popolazione di quasi quindicimila abitanti é costretta a usufruire dei servizi sanitari e scolastici dei villaggi vicini o di Balata, il che rende la situazione ancora piú precaria in termini di accesso ai servizi per la popolazione di tutta l’area.

Il mio viaggio finisce a Arroub, sulla strada tra Hebron e Betlemme. Questo campo ospita quasi diecimila persone e fronteggia gli stessi problemi degli altri in termini di risorse. L’acqua manca per piú giorni alla settimana, c’é un solo dottore che non solo si prende cura della popolazione del campo, ma anche di quella dei villaggi vicini che accedono ai servizi sanitari di Arroub. Un totale di quasi ventiduemila persone sono seguite da un solo medico.

Al mio arrivo sono letteralmente circondata da bambini festanti e rumorosi. Sono gli ultimi giorni di scuola e tra breve avranno gli esami. Mi chiedono l’indirizzo e-mail e mi scongiurano di ritornare. Qui non devi fare molto per farti apprezzare, a molti che come i rifugiati si sentono isolati e un pó messi da parte anche dalle loro autoritá politiche, basta la presenza anche di un solo internazionale a farli sperare, o almeno a rallegrare la giornata con qualcosa di nuovo. Ahmed, il responsabile UNRWA del campo, mi salva da questo pacifico attacco. Mi mostra le stutture del campo. Qui hanno addirittura una piscina (anche se solo per i ragazzi, almeno temporaneamente), una sala per le feste, una scuola e progettano un campo di calcio. Benché anche qui la situazione non sia facile, non si trovano per le strade le immagini dei ragazzi uccisi dall’esercito, non si parla di guerra e di martiri. Qui l’esercito entra di notte (azione che é peraltro contraria al diritto internazionale, che proibisce alle forze armate di penetrare in aree occupate dai rifugiati e protette dalle Nazioni Unite), spara qualche colpo in aria, intimorisce, ma non uccide e non demolisce le case. E’ anche per questo che non ci sono martiri ad Arroub, non ci sono terroristi.