martedì 30 giugno 2009

Ana Paola min lKhalil

La vita a Hebron ha assunto ormai un tono di quotidianitá, nel senso che lavorare e vivere con un limitato numero di persone ha dato alle mie giornate un sapore di familiaritá, e mi piace davvero molto questa sensazione.

Questo benessere comincia al mattino, quando bene o male ci si ritrova a fare colazione tutti insieme. La versione standard e ridotta delle persone che vivono in casa é composta da Laura, dal Paese Basco, Kenan da Stoccolma ed io. Riesco peró a stento a ricordare i giorni in cui in casa si era solo in tre. Il piú delle volte Victor, dalle tedesche terre della Francia, ci fa onore della sua presenza, da una settimana invece si é accampato Gustav, il nostro fancuillo danese, cacciato indirettamente dalla camera che gli avevano dato al club dove lavora con me come volontario. Il suo soggiorno é finito oggi, é ripartito per la Danimarca stamattina. L’augurio piú grande che ha ricevuto da noi é la speranza che non lo perlustrino intimamente in aeroporto.

Laura ed io stiamo lavorando ad un bella iniziativa. Abbiamo scritto un progetto su come insegnare la radio ai ragazzi palestinesi che frequentao le associazioni per cui lavoriamo. Durante le prime due lezioni un gruppetto di circa 10 adolescenti un pó dubbiosi mi aveva dato la sensazione che fossero lí perché costretti da amici e parenti dei responsabili del centro. Dalla terza lezione in poi, quando i nostri hanno dovuto mettere in pratica le poche informazioni che abbiamo dato loro e scrivere un programma radiofonico su un argomento a scelta, Laura ed io abbiamo visto sbocciare la loro a la nostra soddisfazione. Entusiamo e gioia, molto caos e un tasso di partecipazione in aumento. Adesso abbiamo piú di 15 ragazzi e ragazze pronti per registrare professionalmente il loro programma radiofonico. Domani sará il giorno della visita alla radio dell’universitá, nel pomeriggio pronti a registrare con un nuovo mixer. Giovedí invece ce ne andiamo a Nablus, a condividere con i ragazzi del posto le esperienze fatte, all’interno di un progetto finanziato dall’UNESCO che prevede scambi e incontri tra i ragazzi delle due cittá piú estreme della Cisgiordania, non solo a livello geografico.

Pomeriggio di solito cerco di far passare il tempo tra internet e curriculum da inviare. Il lavoro da fare qui al Club non é davvero molto, ma dopo una chiacchierata con Nivin, la responsabile della progettazione, ho avuto carta bianca sulla scrittura dei progetti. Il mio lavoro adesso sará trovare delle idee da realizzare, loro cercheranno i soldi per farlo. Dopo essermi lamentata un pó della inattivitá del Club, ecco che mi ritrovo catapultata nel pieno dei preparativi per il prossimo summer camp. A luglio credo che non avró neanche il tempo di mangiare, e tutto questo proprio nel periodo in cui Igor dovrebbe venire a trovarmi, bien joué.

Le sere variano a seconda che si tratti dei fine settimana o dei giorni lavorativi. I giorni lavorativi sono stati ormai colpiti da un contagio diffuso dal nostro carissimo franco-tedesco. Una sera su due viene infatti spesa a giocare a un gioco di ruolo chiamato Diplomazia, dove ogni giocatore é un paese o un gruppo di paesi che deve sconfiggere i suoi avversari simulando la guerra. Molte ore di sonno perse e molti bicchieri di arak bevuti. Nei fine settimana si sbarca nelle cittá del peccato della West Bank, dove l’alcool non é considerato un biglietto di sola andata per la Jenna (l’inferno islamico). Mi piace sempre incontrare gli altri volontari, hanno sempre delle storie interessanti da condividere. Ma alla fine della serata sento la mancanza di Hebron e voglio tornare a casa, non c’é bottiglia di birra o festa che tenga, perché ormai ana Paola, min lKhalil (sono Paola, vengo da Hebron) .

domenica 21 giugno 2009

Closed Military Zone

Sabato mattina, abbiamo puntato la sveglia alle sei, si va a Beit Ummar dove si terrá una manifestazione di sostegno ad alcune famiglie di contadini di questo piccolo comune del distretto di Hebron. Queste famiglie hanno la sfortuna di possedere alcune terre che si trovano al confine con un insediamento ebraico. Da aprile la corte militare ha stabilito che per questioni di sicurezza i proprietari della terra non possono piú raccogliere ció che hanno piantato.Lo scopo della nostra presenza ad Asaf é proprio quella di consentire ai legittimi proprietari di raccogliere ció che hanno piantato evitando che vengano attaccati dai soldati o dai coloni.

Raggiungiamo il gruppo di attivisti all’entrata del villaggio. La strategia é quella di dividerci due parti, un gruppo rimane nella parte piú bassa, quella piú nascosta agli occhi di militari e coloni, e l’altro gruppo sale verso la collina. In ogni gruppo c’é chi deve occuparsi di documentare l’evento e chi deve aiutare i contadini a raccogliere le foglie di vite, con cui si prepara un fantastico piatto tipico del Medio Oriente. Io decido di fare entrambe le cose.

Saliamo verso la collina, il gruppo di testa é formato da un nutrito gruppo di attivisti israeliani, con l’incarico gravoso di mediare con i soldati e i coloni. Marciamo in un sentiero di campagna per venti minuti buoni. Il nostro approcciarci alla meta viene chiaramente distinto da qualcosa che non vediamo chiaramente ma che diverrá chiaro nei cinque minuti successivi. Un gruppo di coloni scende giú dalla collina urlando versi incomprensibili. La scena sembra tratta da uno di quei film sulle invasioni barbariche. Ragazzi con il volto coperto vengono giú correndo e urlando, tirando pietre nella nostra direzione. Vediamo bidoni di latta rotolare giú, come gesto del disprezzo estremo che queste persone chiuse nella loro arroganza e nelle loro violenza mostrano nei confronti del resto del genere umano.

Io e la mia coinquilina spagnola rimaniamo basite. Prima di procedere cerco di inquadrare con lo zoom della fotocamera la scena per verificare che i coloni non abbiano dei fucili. Non sono armati, andiamo avanti. Le contrattazioni vanno avanti per mezz’ora. Gli attivisti mostrano ai militari un documento delle autoritá israeliane che dichiara illegale l’uso del termine “area militare chiusa” in zone agricole, in quanto questa ha il solo effetto di danneggiare l’economia palestinese. I militari a loro volta ci mostrano la decisione della corte militare, che ha dichiarato l’area “closed military zone”. Nel frattempo raccogliamo le foglie, ascoltando increduli i versi deumanizzati di questo gruppuscolo di ragazzini cresciuti nella convinzione che questa terra appartiene loro per decisione divina.

Il braccio di ferro con i soldati é durato abbastanza, stando alle parole degli attivisti di vecchia data. Decidiamo che é tempo di andare. Il gruppo si ricongionge con l’altro e partiamo verso il nostro punto di incontro. E’ in questo momento che i militari israeliani pensano bene di tronare a casa con un bottino di almeno qualche arrestato, e perché no proprio il proprietario della terra, che ha anche la colpa di aver filmato e documentato tutto. I militari si gettano su di lui per portarlo via, ma fortunatamente gli attivisti israeliani fanno scudo e si gettano a terra per proteggerlo. Qui comincia lo scontro tra il gruppo e i militari, che non risparmiano ai piú audaci tra di noi qualche bella manganellata data con il manganello di legno, senza l’optional della gomma che di solito lo ricopre per attutire il colpo.

Alla fine della giornata nessun palestinese é stato arrestato, come nessun israeliano. Hanno portato via tre degli attivisti, che verranno rilasciati dopo qualche ora con l’obbligo di non tornare a Beit Ummar per le prossime tre settimane.

lunedì 15 giugno 2009

Primi dubbi sulle missioni internazionali

Venerdì sera, siamo invitati al barbeque organizzato dai membri del TIPH (Temporary International Presence in the City of Hebron), il corpo di osservatori internazionali di Hebron. Il TIPH venne istituito nel 1994 per volere del Consigio di Sicurezza delle Nazioni Unite a seguito del massacro nella moschea di Abramo, perpetrato da un ebreo estremista che uccise 29 musulmani che si trovavano all’interno al momento della preghiera. La comunitá internazionale decise allora di istituire una forza mista tra civili e militari per garantire una certa sicurezza ai civili palestinesi. Israele e l’Autoritá Palestinese scelsero ciascuno tre paesi: Italia, Turchia, Svizzera, Norvegia, Svezia e Danimarca. Ufficialmente il TIPH entra in funzione nel 1997.

Il quertier generale si trova in un posto lontano dal centro storico, dove i membri del TIPH svolgono il loro lavoro. Il posto in cui vivono é davvero esclusivo, entriamo e siamo accolti con le prime misure di sicurezza: tesserino di entrata in cambio dei nostri passaporti. L’albergo é fornito da ogni tipo di servizi, vedo passare dietro di me un ragazzo in pantaloncini e maglietta evidentemente sudato, quindi deduco che devono avere anche una palestra.
Il team italiano ci accoglie, scopro piú tardi che gli italiani sono tutti appartenenti alle forze dell’ordine, cosí come i turchi. Ci fanno fare un giro del posto, al piano terra hanno una biblioteca e un centro che dovrebbe servire da centro di informazione. Ai piani superiori ci sono le camere, il risporante, la cucina, la terrazza. Il complesso é davvero grande, e ospita lussuosamente solo 64 persone.

Tutti sono davvero ospitali con noi, sono contenti di avere delle nuove persone con cui parlare. La lamentela principale nei corridoi riguarda la totale assenza di privacy e la freddezza dei membri scandinavi. Questo gruppetto di europei simpatici sembra per loro una boccata di aria fresca.
La serata di stasera é organizzata dal team danese, molta carne e ottimo cibo. Finalmente possiamo avere qualche birra e un bicchiere di vino senza lasciare Hebron e andare a comprare l’alcool a Betlemme.

Tutto qui intorno peró mi sembra finto e lontano dalla realtá in cui viviamo ogni giorno. La neutralitá forzata ha un sentore di inutilitá, un asetticismo utile alla coscienza di molti ma inutile alla vita di ogni giorno dei palestinesi.
Non so quale sia l’effetto del lavoro di queste persone sulla sicurezza dei paestinesi. Il compito principale dei membri del TIPH é osservare. In caso di infrazioni, che in questa cittá significa sempre abuso e violenze, l’unica cosa che possono fare é scrivere reports e inviarli ai paesi membri oltre che alle autoritá competenti in Israele e in Palestina. Quello che mi chiedo é se era davvero necessario istituire un punto di osservazione internazionale su un conflitto cosí complesso che ha il solo compito di monitorare e scrivere. Quanto anche é impossibile non riconoscere l’importanza dell’informazione, che ne é di queste violazioni, cosa succede all’informazione se semplicemente in Europa nessuno conosce la situazione che si vive ogni giorno a Hebron, cosa ne é della dignitá di tutti quei palestinesi costantemente paragonati a terroristi su cui sembra gravare la colpa per ogni misfatto commesso contro di loro. A cosa serve la presenza di questo corpo di osservatori se la realtá é costantemente distorta.
E’ con questi dubbi che lascio il TIPH, dopo un piacevole serata in compagnia di questi militari in vacanza.

domenica 14 giugno 2009

Il campo di Aroub

10/06/2009

Oggi sveglia di buon ora e visita al campo rifugiati di Aroub, tra Hebron e Betlemme. Al nostro arrivo un nugolo di bambini di ogni etá ci circonda, sfoderando tutte le loro conoscenze linguistiche. I piú intraprendenti ci chiedono gli indirizzi e-mail, tra i rimproveri un pó sornioni e complici di qualche adulto che passa da lí. Il grande evento della giornata per loro sembra essere questo gruppuscolo di europei piovuti da chissá dove. Nelle loro domande c’é la curiositá di sapere da dove veniamo e che ci facciamo nel campo.
Dopo aver manifestato il loro entusiasmo per il Barcelona ed il Real Madrid, ci chiedono quando finiremo la visita, ci volgiono rincontrare, abbiamo fatto colpo.

Incontriamo Ahmed, il responsabile della municipalitá del campo. All’inizio é un pó scettico, non saremo né i primi né gli ultimi a presentarsi con un bel sorriso ingenuo e volenteroso davanti alle porte blu dell’UNRWA. Ci dice come si vive nel campo: c’é una clinica con un solo dottore che si prende cura dei 9000 rifugiati del campo e degli 11000 abitanti dei villaggi intorno. Per la cura delle anime invece, il campo ha ben due moschee. Il complesso del municipio é incredibilmente bello e íncredibilmente vuoto. Diviso su due piani, troviamo due stanze per le feste e gli eventi. Dal tetto vediamo le due piscine, entrambe per i ragazzi, non avendo ancora fatto la copertura le ragazze non possono usarle. Adesso sono vuote, dopo gli esami potranno essere usate dalle migliai di bambini del campo.

Ci offriamo di lavorare con loro una volta alla settimana. Anche qui cominceranno i summer camps e hanno bisogno di volontari per stare dietro ai bambini. Ahmed ci propone anche di collaborare con lui per la ricerca di fondi all´estero per finanziare i loro progetti. Ce ne andiamo entusiasti, ci sentiamo utili.

Tra Hebron e Ramallah

09/06/2009

Anche questi giorni sono stati pieni di novitá e di cose nuove da fare e preparare. Sabato sono andata con due funzionari del ministero dello sport alla partita tra la nazionale palestinese e la selezione di Grozny, in Cecenia. Sono riuscita a farmi acrreditare come giornalista cosí ho potuto fare le interviste e le foto in campo.

In realtá la cosa piú interessante della giornata é il viaggio. Sono con due palestinesi in macchina, quindi non possiamo passare da Gerusalemme per raggiungere Ramallah, e ció significa che ci vorranno almeno due ore per percorrere meno di 50 chilometri. All’altezza di Beit Jalla, a Betlemme, c’é un incrocio che conduce su una strada per Ramallah in 5 minuti . Nel 1995 peró questa strada é stata confiscata e chiusa al traffico, ora é per uso esclusivo dei coloni. Il che ci rende le cose piú difficili. Dobbiamo prendere la strada che passa per la “Valle del Fuoco”: uno spettacolo magnifico in un panorama desertico, valli e monti che si stagliano aí due lati della strada, le tende dei beduini, strade che si articolano sinuosamente e che rendono il cammino un pó accidentato. Mi verrebbe da ringraziare il governo israeliano per questo magnifico diversivo offertomi, ma mi libero subito dai miei panni di turista quando vedo i camion per i trasporti pesanti delle ditte palestinesi arrampicarsi faticosamente su per le strade, trasportando ferro o blocchi di pietra. Ecco la strada che un palestinese di Hebron deve fare per andare nella capitale, un viaggio di quesi due ore invece che meno di una.

Sulla strada di ritorno inerpicandoci per l’ultimo tornante guardiamo a destra: Gerusalemme si stende con tutta la sua bellezza al nostro fianco. La cupola della Roccia e la Moschea di Al Aqsa sono ancora ben visibili nonostante il buio. Mohammed, uno dei miei due compagni di viaggio, sospira e mi dice: guarda Al Aqsa, é da venti anni che non ci posso andare.