sabato 29 agosto 2009

Coloni e colonie in Cisgiordania

La presenza di insediamenti israeliani in Cisgiordania é un fenomeno poco conosciuto all’estero ma tristemente famoso in Palestina. In genere l’opinione pubblica internazionale non ha ben chiara la funzione di questi villaggi nel cuore dei territori all’interno della linea verde, cioé della zona che era stata destinata dagli accordi internazionali alla costruzione di uno stato palestinese prima della guerra del 1967. La massiccia costruzione di colonie ha inizio dopo la guerra dei sei giorni nel 1967, a seguito della quale Israele occupa la Cisgiordania e Gaza, e si concentra tra gli anni Settanta e Ottanta. Le colonie sono illegali secondo il diritto internazionale. La loro costruzione viola la quarta Convenzione di Ginevra (articolo 49) che vieta il trasferimento di cittadini dal proprio territorio ad un territorio occupato a seguito di un conflitto; questa pratica viola anche i Regolamenti dell’Aja, stabiliti nel 1910, che impediscono alla potenza occupante di intraprendere cambiamenti definitivi sui territori che occupano.

Gli insediamenti vengono costuiti espropriando terreni e demolendo case di proprietá palestinese. Le strategie con cui il governo israeliano cerca di dare una parvenza legale a pratiche che sono completamente fuorilegge vanno dal ricorso alla confisca di terreni per scopi militari, alla designazione della terra come terra statale, fino al considerare la terra come proprietá di assente (palestinesi che vivono all’estero per esempio) e l’esproprio per necesitá pubbliche. Una volta confiscata la terra destinanta all’insediamento ai palestinesi non é piú consentito l’accesso e questo significa la perdita di importanti risorse economiche o di beni quali case e terreni.

Con il tempo le colonie sono state riconosciute parte dello stato di Israele, benché la Cisgiordania non sia territorio israeliano. Questo ha determinato uno status differente per le persone che abitano sullo stesso territorio, dando vita ad una discriminazione basata sulla cittadinanza. I coloni infatti sono cittadini di Israele e godono dei diritti garantiti loro dallo stato israeliano e rispondono ad un ordine giudiziario basato sul diritto civile. I palestinesi non sono protetti da alcun tipo di legge, fatta eccezione per quella militare e la legge giordana che ancora vige sui territori (la Giordania occupó i territori palestinesi nel 1948 e li restituí nel 1950), entrambe utilizzate in ottica punitiva.

Il controllo israeliano non si concentra solo sulle colonie in quanto tali. Tutti gli insediamenti sono infatti circondati da un anello di terra, che viene dichiarata “Zona Militare Chiusa” al fine di proteggere i coloni e al quale l’accesso ai palestinesi é vietato. Le colonie sono anche collegate tra loro da strade costruite ex novo sulle terre palestinesi (chiamate in gergo by-pass roads) o sottratte ai palestinesi, come la strada N 60 che collega la Cisgiorania da nord a sud e ai cui palestinesi é negato l’accesso, costringendoli a percorrere strade secondarie e di campagna, con grave danno per la loro mobilitá e le loro attivitá economiche e commerciali.

La presenza di colonie israeliane determina un clima di segregazione e umiliazione che diventa il fulcro della violenza, dell’alienazione e delle difficoltá di movimento per tutti i palestinesi, ma anche della mancata crescita economica, e tutto questo avviene in completa violazione del diritto internazionale.
La strategia che sta alla base di questa politica di espropriazione delle terre e della costruzione di nuovi insediamenti é quella di rendere l’occupazione permanente e di impedire nei fatti la creazione di uno stato palestinese. Infatti, a seguito della costruzione degli insediamenti (costruzine che ancora continua e contro la quale i potenti si stanno solo ora schierando, sulla scia di Obama), delle strade e del muro ció che resta della terra che un tempo doveva essere destinata allo stato palestinese é poco piú del venti percento, parcellizzato in piccoli villaggi e cittá separati tra loro, senza continuitá territoriale e senza risorse (le risorse minerarie, idriche e agricole sono in mano israeliana. Un esempio su tutti: gli abitanti del centro di Hebron hanno un consumo giornaliero massimo di acqua di 5 litri al giorno pro capite, mentre gli abitanti degli insediamenti intorno e dentro la cittá consumano piú di 165 litri di acqua al giorno pro capite. Senza considerare che l’Autoritá Palestinese e le municipalitá sono costrette a comprare la loro acqua dalle autoritá israeliane ad un prezzo cinque volte piú alto rispetto a quello pagato dai cittadini israeliani), il che rende le prospettive della possibiliá per i palestinesi di avere un giorno uno stato pressocché nulle.

Gli insediamenti peró non sono tutti uguali. Alcuni, la maggiorparte, rispondono alla strategia politica di impedire la creazione di uno stato palestinese (senza alcun dubbio questa strategia trionfa al momento in quanto, alla luce dei fatti, la presenza massiccia di colonie ha determinato la fine della possibilitá per i palestinesi di avere uno stato). L’ottanta per cento degli abitanti degli insediamenti vi vive in quanto riceve sussidi statali in temini fiscali e agevolazioni nell’acquisto di case e terreni. Molti cittadini israeliani si trasferiscono nelle colonie in vista di una prospettiva politica migliore di quella che potrebbero avere in Israele. Altri insediamenti, abitati pevalentemente da ebrei ultraortodossi e radicali, sono ispirati da una dottrina religiosa estremista che si nutre dell’idea che Israele appartiene agli ebrei e che tutti gli arabi devono essere cacciati, in nome di una giudaizzazione dello stato. E’ questo il caso degli insediamenti che soffocano Hebron, la cittá piú a sud della Cisgiordania.

Welcome to Hebron

Hebron é la cittá in cui vivo e lavoro, é la cittá dove vivono i miei amici e dove trascorro la maggior parte del mio tempo, é la mia casa qui in Palestina. Ma Hebron é anche una cittá fantasma, distrutta dall’interno, assediata da cinque insediamenti che ne soffocano l’economia, la libertá di movimento, la vita sociale dei palestinesi e di tutti coloro che vivono qui, rendendo ció che era uno dei pincipali centri economici e commerciali della Cisgiordania il posto piú vulnerabile della Palestina.

Hebron é strangolata dalla presenza di quattro insediamenti nel centro della cittá, il che la rende un posto unico nella sua singolare tristezza, essendo appunto la sola cittá della Cisgiordania ad avere i coloni nel suo centro storico. Questa presenza é determinata dal fatto che Hebron é una cittá sacra per ebrei e musulmani, essendo il patriarca Abramo seppellito qui insieme alla sua famiglia. Questa sacralitá ha spinto questi fanatici fautori della giudaizzazione della Palestina ad installarsi nel centro di questa popolosa cittá palestinese (Hebron é la cittá piú grande della Cisgiordania).

Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta 500 coloni hanno occupato il centro storico della cittá, impossessandosi di case e negozi di proprietá palestinese. Nonostante la chiara illegalitá di quest azione, lo stato di Israele ha riconosciuto tutti gli insediamenti costruiti in quest’area, rendendo legale la loro presenza. Il senso di impunitá per i coloni che ne scaturisce é chiaro quando si cammina per le vie della cittá vecchia. Check point, barriere e filo spinato squarciano un centro storico bellissimo, scavato tutto nella roccia, che si articola tra vicoli, gallerie e sottopassi e che non avrebbe niente da invidiare a quello di Gerusalemme, se non fosse per la presenza dei coloni. Non é difficile imbattersi in ragazzini e adolescenti arroganti che insultano i passanti arabi e internazionali, colpevoli di sostenere la causa palestinese. E’ anche probabile che non si limitino solo agli insulti, ma che inizino a tirare pietre e oggetti, costringendo la gente a rifugiarsi nei pochi negozi aperti o sotto le volte dei vicoli. Nelle torride giornate estive, quando l’acqua, giá cosí rara e bene prezioso soprattutto nel centro storico,diventa una risorsa piú che essenziale, i coloni rovesciano le cisterne che ogni famiglia ha sul tetto, costringendole a affrontare spese significtive per rimpiazzare le cisterne danneggiate o a restare senza acqua per i giorni a venire. Tutto questo avviene sotto gli occhi complici dei soldati, che dovrebbero intevenire per proteggere i palestinesi dagli attacchi quotidiani dei coloni, ma che in realtá li proteggono e a volte li sostengono nelle violenze contro i residenti.

Andare in centro cittá significa anche rendersi conto della violenza spirituale e intellettuale di queste persone. Sulle porte delle case e sulle serrande dei negozi campeggiano stelle di Davide e slogan che incoraggiano alla pulizia etnica della Palestina, metodi che tristemente ricordano quelli usati dai nazisti probabilmente contro i genitori e i nonni di queste persone. E’ disarmante rendersi conto che dopo tutto la sotia non insegni niente.

Hebron muore ogni giorno, soffocata da questo cancro tremendo che é l’occupazione. Alla fine degli anni Sessanta 7500 persone vivevano nel centro storico, oggi sono meno di 1500. Quando cala il solo Hebron si spegne, e diventa uno dei posti piú pericolosi della Cisgiordania, in quanto la sicurezza non é garantita da nessuno. Hebron é diventata ritrovo di delinquenti di ogni genere, dove la sicurezza non é garantita né dalla polizia palestinese che non puó entrarvi (il centro cittá, chiamato H2, é sotto esclusivo contollo delle autoritá israeliane) né dall’esercito israeliano che trae vantaggio dalla situazione, che rende Hebron un posto ancora piú debole e facilmente controllabile.

Tel Rumeida

Uno degli insediamenti di Hebron si chiama Tel Rumeida. Tel Rumeida é una bellissima collina da cui si gode del panorama di tutta la cittá vecchia. Al tramonto la cittá e la Moschea di Abramo, viste da qui, sono bellissime e per un attimo dimentichi dove ti trovi. Basta volgere lo sguardo peró per ritornare alla realtá e vedere le case dei coloni separate dal resto dell’ambiente da filo spinato e dal loro fanatismo insanabile. Tel Rumeida, esattamente come gli altri insediamenti, vive ogni giorno la presenza problematico di coloni violenti la cui ideologia é quella di occupare quante piú case possibile e costringere gli “arabi” ad andarsene. Ma Tel Rumeida é anche testimone di una vittoria, di una storia a lieto fine, é la storia del Media Center di Tel Rumeida.

Il Media Centre si trova in una casa che era stata precedentemente occupata dall’esercito israeliano.Come ho giá accennato in precedenza, una delle strategie usate per la costruzione e l’espanzione delle colonie é quella di dichiarare l’area o l’abitazione di interesse strategico e militare. Dopo qualche tempo in genere i soldati vanno via e lasciano subentrare i coloni. Nel 2006, la casa occupata dai militari viene abbandonata. Un gruppo di residenti palestinesi si rende conto che i coloni stavano preparando la casa in vista del loro ingresso. Da quel momento questo gruppo, sostenuto da attivisti israeliani e internazionali, hanno cominciato a presidiare la casa per evitare che fosse occupata. Uno degli attivisti palestinesi ottiene dal proprietario dell’abitazione, un palestinese residente a Gerusalemme, l’intestazione della casa. Da questo momento Issa, questo é il nome di questo ragazzo palestinese sorridente e combattivo, diventa il legale proprietario della casa. L’esercito all’inizio gli impedisce di entrare, ma il gruppo continua a presidiare per giorni la casa. Alla fine anche l’äarroganza della forza deve arrendersi di fronte alla legge: i documenti sono regolari e non puó essere impedito al legittimo proprietario di entrare in casa sua.

Il Media Centre di Tel Rumeida é ora un centro di aggregazione, dove la gente si ritrova per stare insieme e spezzare la volontá di esercito e coloni che mirano a rendere le condizioni di vita dei palestinesi disumane. Qui si insegnano le lingue, si impara a proteggersi dalle aggressioni con mezzi non violenti (per esempio ogni residente ha in dotazione una videocamera con cui vengono filmate le violenze e le aggressioni), si proiettano film e documentari, si sostengono psicologicamente i bambini e le famiglie, ma soprattutto si vive insieme e si condivide un’esperienza. A Tel Rumedia si ride molto, e questo é il piú bel modo di resistere.

martedì 25 agosto 2009

Storie dai campi

Una delle vene aperte della Palestina sono i campi dei rifugiati. Oggigiorno non ha neanche piú senso chiamarli campi. All’inizio infatti questi erano perlopiú composti da tende, che ne rendevano il carattere temporaneo. Dopo sessanta anni, i campi hanno cambiato il loro volto, si sono trasformati in quartieri periferici attorno alle cittá a cui sono stati costruiti. Le persone che vi vivono e i loro discendenti invece restano rifugiati.

I campi per i rifugiati sono stati costruiti tra il 1948 e il1950, a seguito del primo conflitto arabo-israeliano. Nel corso del conflitto, che ha dato vita allo stato di Israele, la popolazione che si trovava sui territori che adesso fanno parte di Israele é stata costretta a lasciare le proprie case e i propri averi. I palestinesi ricordano questo episodio con in nome di Nakba, catastrofe, e lo commemorano ancora oggi, come il giorno che ha segnato la fine della loro vita come persone libere. Le famiglie nei campi si tramandano ormai da piú di quattro generazione le pesanti chiavi di ferro delle loro case, con la speranza un giorno di potervi ritornare, anche se molte di quelle case non esistono piú o sono state occupate da famiglie israeliane.

Un campo non é facilmente riconoscibile ad un’occhiata frettolosa, data la somiglianza con i quartieri poveri delle cittá mediorientali. Si riconosce invece quando vi si passa accanto, a piedi. Il contrassegno azzurro dell’UNRWA (United Nation Relief Work Agency for Palestinia Refugees) ci dice che la zona in cui stiamo passando é un campo. In tutta la Cisgiordania ne esistono 19, per una popolazione di 486.479 persone (una percentuale molto alta, se si considera che la popolazione della Cisgiordania si aggira attorno a 1.8 milioni), ma il numero aumenta quando lo sguardo si allarga sui campi-rifugiati in tutto il Medio Oriente. Le ultime stime parlano di 4.6 milioni di palestinesi che vivono da piú di sessant’anni con lo status di rifugiati .

Data la consistenza demografica dei rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno nelle loro terre a conflitto terminato é una delle questioni piú spinose e controverse che ha accompagnato tutto il cammino dei negoziati, ed é uno delle principali ragioni di stallo dei processi di pace, insieme alla questione dello status di Gerusalemme. Lo stato di Israele si rifiuta infatti di riconoscere il diritto al ritorno di tutti i rifugiati, in nome della tutela dell’ebraicitá dello stato che verrebbe minacciata dal peso demografico della popolazione palestinese.

Vivere in un campo significa essere piú poveri della media della povertá in palestina, avere meno accesso alle srutture pubbliche ed una mobilitá assai piú ridotta. Queste condizioni, protrattesi per sei decenni, hanno reso i campi delle zone sensibili, dove il malcontento si é sedimentato e accresciuto. Non é un caso che nei campi si trovino rappresentate le posizioni piú radicali e che sia proprio nei campi che le organizzazioni terroristiche riescono a reclutare ragazzi che vengono trasformati in attentatori. In effetti qui, per molti ragazzi morire non é la piú terribile delle opzioni.

Personalmente, la questione dei rifugiati mi ha sempre interessato, e una volta in Palestina una delle prime cose che ho voluto fare é stata visitare qualcuno dei campi disseminati in tutta la Cisgiordania. Il mio viaggio mi porta verso Nablus, a nord, quasi tre ore e mezzo da Hebron. La mia prima tappa é Balata, il campo-rifugiati piú grande di tutta la Cisgiordania, con una popolazione di 21,445 abitanti. Balata é stato il centro della seconda intifada, la fabbrica dei terroristi, secondo le fonti israeliane. Per quanto conoscessi un pó la realtá dei campi, entrare a Balata mi toglie il fiato. In Palestina l’iconografia é ovunque, ma nei campi é violenta, pesante, senza speranza. I poster di centinaia di ragazzi con il mitra in mano campeggiano su tutti i muri. Chiedo al mio accompagnatore di spiegarmi il significato di questo delirio di immagini. Alza le spalle e mi dice: “Martiri”. Adesso realizzo, per la prima volta, quello che ho sempre sentito e studiato. Martiri, centinaia, bambini e ragazzi, non piú grandi di diciotto anni. Gli chiedo cosa voglia dire martiri. L’idea che avevo era che un martire é colui che si immola per una causa, e qui in Palestina mi sembrava che questo termine cosí religioso fosse applicabile a coloro i quali si sono fatti saltare in aria negli autobus di Tel Aviv e Gerusalemme. Ma il numero non coincide, questi martiri sono troppi e non ci sono stati cosí tanti attentati in Israele. Piú tardi capisco. La maggior parte di queste persone sono state uccise dai soldati israeliani, che durante l’ultima intifada hanno bombardato il campo piú volte. Non importa che tu sia morto al lavoro o durante il sonno, questo é un conflitto, e morire per mano nemica ti rende un martire.

Il campo é piccolo per ospitare quasi 22 mila persone. Le case sono costruite l’una sull’altra. Le autoritá israeliane hanno proibito di costruire in larghezza, per evitare che il campo si estenda. Questo rende le condizioni abitative precarie, per una popolazione che cresce ogni anno. Le strade sono cosí piccole che ci si cammina in fila indiana. Riesco a fatica a immaginare come l’esercito possa fare irruzione in un posto cosí stretto. Chiedo al mio accompagnatore come questo sia possibile. Mi dice che l’esercito applica due strategie: a volte demolisce la casa dove dovrebbe trovarsi la persona che cercano, e questo ha delle conseguenza devastanti se si considera che la densitá abitativa delle case nei campi é di almeno di 5 persone per ogni abitazione. Un’altra strategia é quella di procedere da una casa all’altra attraverso dei grandi fori nelle pareti, in una logica che mi sembra piú quella di una punizione collettiva che di una misura di sicurezza.

Il cemento rende il calore insopportabile. Il mio accompagnatore mi porta in un posto che a prima vista mi sembra un giardino. E’ un piccolo spazio ma fresco, con degli alberi. Non ci metto molto per capire che questo posto non é piú un giardino, é una sorta di piccola cappella dove sono stati seppelliti quattro membri della stessa famiglia uccisi dai missili israeliani durante il bombardamento del campo nel 2002. Due avevano meno di diciotto anni. Alcuni membri della famiglia sono li, a commemorare i loro morti. Non ho il coraggio di chiedere niente, non so cosa si possa provare nel perdere qualcuno durante un bombardamento, ma comincio a sentire dentro di me che se in ogni famiglia c’é almeno un morto, il passo verso la vendetta, qualunque forma essa abbia, non é lungo. Sento che se la morte ti circonda ogni giorno, questa ti diventa familiare, e non é piú la peggiore delle soluzioni.
Non so se il mio accompagnatore mi abbia letto negli occhi questo pensiero, ma mi guarda fisso e mi dice: “Non ce la facciamo piú con tutti questi morti, non abbiamo neanche piú lacrime per piangerli. Vogliamo vivere in pace, vogliamo che i nostri ragazzi non muoiano. Siamo stanchi”.
Chissá quante volte l’ho sentita questa frase, ma per la prima volta la sento reale, ed é una sensazione, un brivido che non riesco a dimenticare.

Finisco la mia visita a Balata al centro per i giovani che hanno costruito qualche anno fa. Qui cercano di offrire ai ragazzi una dimensione diversa della vita, piú allegra, con delle speranze per il futuro. Insegnano musica, arte, danza, quando i fondi glielo permettono, dato che i governi tagliano ogni anno i fondi destinati all’UNRWA. Mi sento piú leggera adesso. Nonostante la presenza asfissiante della morte e della guerra, c’é qualcuno che spera nel futuro.

Il mio viaggio prosegue verso Askar, sempre nella municipalitá di Nablus. Askar vive una situazione divesa dagli altri campi. Nel 1964 il campo si é esteso, e l’UNRWA, dato che l’agenzia non ha giurisdizione amministrativa sul territorio, non ha potuto riconoscere questa nuova parte, che pertanto non gode di nessun tipo di sostegno da parte delle Nazioni Unite. Una popolazione di quasi quindicimila abitanti é costretta a usufruire dei servizi sanitari e scolastici dei villaggi vicini o di Balata, il che rende la situazione ancora piú precaria in termini di accesso ai servizi per la popolazione di tutta l’area.

Il mio viaggio finisce a Arroub, sulla strada tra Hebron e Betlemme. Questo campo ospita quasi diecimila persone e fronteggia gli stessi problemi degli altri in termini di risorse. L’acqua manca per piú giorni alla settimana, c’é un solo dottore che non solo si prende cura della popolazione del campo, ma anche di quella dei villaggi vicini che accedono ai servizi sanitari di Arroub. Un totale di quasi ventiduemila persone sono seguite da un solo medico.

Al mio arrivo sono letteralmente circondata da bambini festanti e rumorosi. Sono gli ultimi giorni di scuola e tra breve avranno gli esami. Mi chiedono l’indirizzo e-mail e mi scongiurano di ritornare. Qui non devi fare molto per farti apprezzare, a molti che come i rifugiati si sentono isolati e un pó messi da parte anche dalle loro autoritá politiche, basta la presenza anche di un solo internazionale a farli sperare, o almeno a rallegrare la giornata con qualcosa di nuovo. Ahmed, il responsabile UNRWA del campo, mi salva da questo pacifico attacco. Mi mostra le stutture del campo. Qui hanno addirittura una piscina (anche se solo per i ragazzi, almeno temporaneamente), una sala per le feste, una scuola e progettano un campo di calcio. Benché anche qui la situazione non sia facile, non si trovano per le strade le immagini dei ragazzi uccisi dall’esercito, non si parla di guerra e di martiri. Qui l’esercito entra di notte (azione che é peraltro contraria al diritto internazionale, che proibisce alle forze armate di penetrare in aree occupate dai rifugiati e protette dalle Nazioni Unite), spara qualche colpo in aria, intimorisce, ma non uccide e non demolisce le case. E’ anche per questo che non ci sono martiri ad Arroub, non ci sono terroristi.

giovedì 16 luglio 2009

Diario dalla Palestina, primo reportage

Verso Hebron

Arrivare in Palestina é come mettere in discussione tutte le certezze che si hanno a proposito di questa terra. Significa fare un fagotto delle idee e dei pregiudizi accumulatisi in anni di letture e studi e metterlo da parte, aprendosi a percepire il conflitto e la societá in una prospettiva del tutto nuova.

Perlomeno questo é ció che é capitato a me, a cominciare dalla geografia di questo posto, che ti si presenta in modo completamente inaspettato. La geografia politica e urbana della Palestina é diventato un soggetto di studio. Dacché esistono gli stati nazione, secondo una delle teorie universalmente accettate della scienza politica, la continuitá geografica e territoriale é una delle caratteristiche dello stato come entitá. In Paestina questa continuitá territoriale é negata, interrotta da innumerevoli insediamenti ebraici (piú di 100 se si considerano quelli non ancora legalizzati dalle autoritá israeliane, in cui abitano circa 300.000 coloni su una popolazione di 2.5 milioni di palestinesi), dai blocchi stradali, dai check points, dalle terre e dalle strade confiscate e rese percorribili solo per i coloni ebraici, dal muro.

Percorrendo la strada dall’aeroporto di Tel Aviv a Betlemme, dove il nostro gruppo di 17 volontari da tutta l’Europa deve terminare il periodo di training, questa geografia ti si presenta, reale per la prima volta. Di fronte alle colline di Betlemme si estende Gillo, uno dei piú grandi insediamenti di tutta la Cisgiordania. Un insieme di palazzi alti e bianchi, costruiti a schiera, sono l’elemento costante delle colonie. Gli edifici sono perlopiú costruiti in larghezza, in modo da occupare piú superficie possibile. Qui anche l’architettura diventa arrogante, simbolo di una violazione palese del diritto internazionale. Questo scenario ci si ripresenta ovunque, su ogni strada, secondaria o principale che sia, tant’é che dopo due mesi in Palestina siamo capaci di riconoscere ogni singolo insediamento che incontriamo andando da Hebron a Gerusalemme e su fino a Ramallah.

Finito il periodo di training a Betlemme sei di noi sono stati assegnati a Hebron. La notizia é arrivata un pó come una doccia fredda. L’idea che ognuno di noi aveva di Hebron era quella di un posto pericoloso e problematico. Abbiamo cominciato ad agitarci quando i responsabili del progetto hanno iniziato ad incoraggiarci con pacche sulle spalle.

Non potró mai dimenticare il mio primo giorno ad Hebron. Quando si entra in cittá si ha l’impressione di essere in una qualsiasi cittá del Medio Oriente, palazzi bianchi e alti, con i tetti piatti, costruiti senza un grande senso estetico e sembrerebbe senza un vero e proprio piano urbanistico a giudicare dalla loro disposizione. Ma l’impatto, lo schiaffo in faccia si ha quando si entra nella cittá vecchia, un posto unico in tutta la sua impotente desolazione. Le strade sono quasi deserte, i negozi aperti poche decine, i turisti inesistenti, gli acquirenti ancora meno. La presenza di un insediamento ebraico nel centro della cittá ha fatto di Hebron una cittá fantasma, l’unico posto in Cisgiordania a subire l’occupazione dall’interno del centro storico. Quando si entra ci si accorge subito di questa presenza ingombrante: una torre militare a destra sta a guardia dell’incolumitá dei coloni. Pochi metri e ci si ritrova con il naso all’insú, increduli di quel che si vede: una fitta rete di protezione é collocata tra il piano terra e il primo piano degli edifici. Sulla rete giacciono ogni tipo di rifiuti, pannolini sporchi, bottiglie di acidi e sostanze chimiche, grosse pietre. I coloni che occupano il centro storico vivono in case adiacenti alle strade che i palestinesi percorrono ogni giorno Dai piani alti delle loro case tirano addosso ai palestinesi ogni genere di oggetto, e questo spiega la necessitá delle reti di protezione. Con il tacito consenso delle autoritá militari i coloni si sono impossessati di attivitá commerciali e scuole, rendendo la vita in cittá un incubo.Piú di 1500 attivitá commerciali sono state chiuse dall’esercito al fine di garantire un’area di sicurezza attorno all’insediamento, mentre molte altre sono state chiuse dai proprietari, a seguito del crollo della vita economica di ció che prima era un fiorente centro commerciale.

La storia dell’occupazione di Hebron risale al 1967. Durante la guerra dei sei giorni l’esercito Israeliano occupa la Cisgiordania e l’anno successivo un gruppo di ebrei ultraortodossi, fingendosi turisti, si insediano in un albergo nella cittá vecchia, dando vita al primo insediamento, riconosciuto piú tardi dalle autoritá israeliane. Da allora Hebron é stato teatro di scontri e violenze, culminate nel massacro nella moschea di Abramo. Nel 1994 un colono ha aperto il fuoco nella moschea durante l’ora di preghiera, uccidendo 29 palestinesi. E’ da allora che la comunitá internazionale ha deciso di istituire una forza internazionale di monitoraggio (TIPH, Temporary International Presence in the City of Hebron) al fine di proteggere i palestinesi residenti dagli attacchi dei coloni e dalla violenza dei soldati.

La presenza dei coloni in cittá é tutt’altro che discreta: le torrette di controllo sui tetti, le reti mimetiche sistemate introno agli edifici, i soldati in giro per le strade con gli M16 puntati sui passanti. Per accedere ai vari settori della cittá bisogna attaversare diversi check points. Dietro uno di questi check points si trova la moschea (e sinagoga) di Abramo. La tradizione vuole che Abramo abbia fatto seppellire qui tutta la sua famiglia, e questo rende il luogo sacro sia per gli ebrei che per i musulmani, essendo Abramo figura centrale dell’ebraismo e dell’islam. A seguito di questa situazione Hebron resta una zona conflittuale, la violenza é sopita ma sempre pronta ad esplodere. Meno di due mesi fa un ragazzo palestinese di quindici anni é stato ucciso dai soldati proprio di fronte alla moschea, sembra che stesse lanciando delle pietre, ed i soldati sono autorizzati a sparare in circostanze come queste.

Passeggiare per le strade di Hebron é comunque un’esperienza umana profonda. Dopo le prime due visite i residenti ti riconoscono, i commercianti capiscono che non sei un turista e non cercano piú di venderti qualcosa. Quando capiscono che sei un volontario e che sei arrivato dall’Europa per lavorare e vivere con loro, ogni stretta di mano, ogni abbraccio ed ogni sguardo é una dimostrazioni di affetto e di stima.

Nella cittá vecchia tutti hanno qualcosa da raccontare e tutti sono abituati alle telecamere e alle macchine fotografiche di osservatori internazionali, giornalisti e attivisti che monitorano costantemente la situazione in centro. E’ con loro che incontriamo il piú grande dei figli della famiglia Aiwaiwe, ben conosciuta in tutta Hebron in quanto il tetto della loro casa é occupato da una postazione militare ed é costantemente bersaglio della violenza dei coloni residenti nell’insediamento di Abraham Avinu, che vorrebbero avere la casa per se. La visita alla casa piú famosa di Hebron é un obbligo. Il figlio maggiore ci accompagna in casa sua e sul tetto. Qui conosciamo tutta la famiglia, la mamma e i sette figli, il padre é al lavoro. Mentre sorseggiamo del the e giochiamo con i bambini ci raccontano le loro esperienze e la loro lotta quotidiana nel resistere senza abbandonare la casa, sotto l’occhio costante dei militari a 15 metri da noi. Basma, la madre, ha perso due bambini: un primo aborto causato da una caduta dalle scale durante una colluttazione con un soldato, un secondo dal mancato arrivo dell’ambulanza, che i soldati israeliani non hanno fatto passare. Il bambino piú piccolo, Saad, soffre di disturbi psicologici. Spesso i coloni attaccano la casa, piombando nelle stanze nel cuore della notte e terrorizzando i bambini. In uno degli ultimi attacchi, risalenti al 2008, i coloni hanno attaccato la casa con delle bottiglie incendiarie, distruggendo completamente una stanza all’ultimo piano, che la famiglia ha deciso di mantenere cosí per mostrare agli osservatori cosa vuol dire vivere ogni giorno con questa minaccia alle porte. Las nostra chiacchierata si prolunga fino a pomeriggio inoltrato. AL calar del sole non é piú consentito stare sul tetto, e un gruppo di soldati ce lo ricorda, urlandoci di andare via e di non “mischiarci con gli arabi”. Ce ne andiamo quasi subito, non vogliamo che per colpa nostra la famiglia sia aggredita o maltrattata.

Due storie aldiqua del muro

La geografia della Palestina é ormai anche la geografia del muro. Dopo lo scoppio della seconda intifada nel settembre 2000 e dopo una serie di attacchi terrorístici a Gerusalemme e Tel Aviv, le autoritá israeliane hanno deciso di costruire un muro di separazione tra i terrotori palestinesi e lo stato di Israele. Il progetto del muro copre una superficie di centinaia di chilometri. Il suo tragitto separa strade e villaggi, terre e risorse dai loro legittimi proprietari. Alcune cittá, come Qalqilia, a nord della Cisgiordania, sono completamente circondate, e questo rende la situazione invivibile per gli abitanti.

Il progetto del muro risponde anche ad una precisa strategia di umiliazione. Non solo viene costruito rendendo la mobilitá dei palestinesi difficile, ma viene costruito sulle terre dei palestinesi, ai quali vengono espropriate, privandoli di un importante se non unica fonte di reddito e di sopravvivenza. In molti villaggi, soprattutto quelli a vocazione agricola, il muro significa la perdita delle attivitá economiche. E’ in alcuni di questi villaggi che sono nate associazioni di palestinesi, contadini e proprietari, che manifestano settimanalmente contro l’espropriazione delle terre e la costruzione del muro. A loro si sono aggiunti attivisti israeliani e internazionali. La loro presenza é una sorta di assicurazione sulla vita mi dice Beka, una dei coordinatori della protesta, se c’é una nutrita presenza di internazionali i militari fanno di tutto per evitare scontri violenti e per prevenire i coloni dall’attaccare.

Questa é la storia di Beit Ummar, nel distretto di Hebron,e di Bi’lin, in quello di Ramallah.

Un sabato mattina la mia coinquilina spagnola ed io decidiamo di raggiungere la manifestazione a Beit Ummar. Il villaggio di Safa, nella municipalitá di Beit Ummar (Hebron) confina con l’insediamento di Kefar Ezyon. Da aprile la corte militare ha stabilito che per questioni di sicurezza i proprietari della terra non possono piú raccogliere ció che hanno piantato, dichiarando l’area una Closed Military Zone. Raggiungiamo il gruppo di attivisti all’entrata del villaggio e saliamo verso la collina. Il gruppo di testa é formato da un nutrito gruppo di attivisti israeliani, con l’incarico gravoso di mediare con i soldati e i coloni. Marciamo in un sentiero di campagna per venti minuti buoni.e capiamo immediatamente che siamo arrivati al confine con l’insediamento. In realtá l’insediamento in se non é visibile, ma all’improvviso un gruppo di coloni si scaglia giú dalla collina urlando. La scena sembra tratta da uno di quei film sulle invasioni barbariche. Ragazzi con il volto coperto vengono giú correndo e urlando, tirando pietre nella nostra direzione. Bidoni di latta cominciano a rotolare giú, gesto del disprezzo estremo che queste persone chiuse nella loro arroganza e nelle loro violenza mostrano nei confronti del resto del genere umano. Io e la mia coinquilina spagnola rimaniamo basite. Prima di procedere cerco di inquadrare con lo zoom della fotocamera la scena per verificare che i coloni non abbiano dei fucili. Non sono armati perció andiamo avanti. Le contrattazioni vanno avanti per mezz’ora. Gli attivisti mostrano ai militari un documento delle autoritá israeliane che dichiara illegale l’uso del termine “area militare chiusa” in zone agricole, in quanto questa ha il solo effetto di danneggiare l’economia palestinese. Cerchiamo di dimostrare che stanno violando la loro stessa legge, ma non sembra che questa sia la loro principale preoccupazione. Rimaniamo per mezz’ora ad aiutare i contadini a raccogliere i loro prodotti, ma il braccio di ferro con i soldati é durato abbastanza, stando alle parole degli attivisti di vecchia data. Decidiamo che é tempo di andare. Tutto il gruppo é ormai sulla via del ritorno quando i soldati israeliani decidono di attaccarci per arrestare il proprietario della terra, che ha la colpa di aver violato un ordine militare accedendo alla terra e anche e di aver filmato e documentato tutto. I militari si gettano su di lui per portarlo via, ma fortunatamente gli attivisti israeliani fanno scudo e si gettano a terra per proteggerlo. Qui comincia lo scontro tra il gruppo e i militari, che non risparmiano ai piú audaci tra di noi qualche bella manganellata data con il manganello di legno, senza l’optional della gomma che di solito lo ricopre per attutire il colpo.Alla fine della giornata si riesce ad evitare che il proprietario venga arrestato. Hanno peró portato via tre degli attivisti, che verranno rilasciati dopo qualche ora con l’obbligo di non tornare a Beit Ummar per le tre settimane successive.

Venerdí 3 di questo mese invece decido di raggiungere la protésta a Bi’lin. Le voci che questa sia una manifestazione violenta corrono, quindi decido di portare qualcosa per proteggermi dai gas lacrimogeni. Il viaggio per Ramallah é lungo, si passa attraverso una vallata desertica chiamata Valle del Fuoco perché i tassisti palestinesi non sono autorizzati a passare per Gerusalemme, quindi ci si deve girare intorno. A Bi’lin trovo un enorme gruppo di attivisti internazionali, tant’é che c’é persino qualcuno che ne approfitta per vendere prodotti tipici di artigianato locale. Arrivano le automobili di TV e giornali. I giornalisti iniziano il loro rituale di vestizione: giubbotti anti-proiettile, caschi e maschere anti-gas. Dopo l’uccisione di un attivista palestinese durante la manifestazione ad aprile tutti preferiscono prevenire ogni genere di pericolo. Il gruppo parte quasi subito ed io mi porto avanti per fotografare il corteo. Il tempo di arrivare alla recinzione che protegge l’area dove verrá costruito il muro che parte la sassaiola. Alcuni tra gli attivisti palestinesi cominciano a tirare pietre in direzione dei pochi soldati che proteggono questa sorta di avamposto. Questo segna la fine della manifestazione, quello che ne segue é un delirio di gas lacrimogeni e bombe sonore. Dopo il terzo attacco resto praticamente intossicata, ma cerco di andare avanti per documentare da vicino gli scontri. Fortunatamente un attivista palestinese mi presta la sua maschera anti gas e riesco a fare delle foto da distanza ravvicinata. I soldati contuinuano a sparare senza alcun criterio e da piú lati, qualcuno viene colpito dai lacrimogeni, che bruciano a contatto con il corpo. Uno di questi mi si infila sotto la maglia provocandomi prurito e irritazioni per il resto della giornata.

Quando é ormai tempo di andare i soldati lanciano l’ultimo attacco, questa volta massiccio. Non ho piú la maschera. La pioggia di lacrimogeni ci colpisce proprio a metá via tagliandoci la strada. Non vediamo piú niente e non riusciamo a respirare. Comincio a correre con gli occhi chiusi e mi infilo sotto un albero seguendo la voce di qualcuno. Aspettiamo che l’effetto del gas finisca e ce ne andiamo. Insieme ad un enorme mal di testa mi porto dietro l’impressione che questa manifestazione non sia stata utile a niente.

martedì 30 giugno 2009

Ana Paola min lKhalil

La vita a Hebron ha assunto ormai un tono di quotidianitá, nel senso che lavorare e vivere con un limitato numero di persone ha dato alle mie giornate un sapore di familiaritá, e mi piace davvero molto questa sensazione.

Questo benessere comincia al mattino, quando bene o male ci si ritrova a fare colazione tutti insieme. La versione standard e ridotta delle persone che vivono in casa é composta da Laura, dal Paese Basco, Kenan da Stoccolma ed io. Riesco peró a stento a ricordare i giorni in cui in casa si era solo in tre. Il piú delle volte Victor, dalle tedesche terre della Francia, ci fa onore della sua presenza, da una settimana invece si é accampato Gustav, il nostro fancuillo danese, cacciato indirettamente dalla camera che gli avevano dato al club dove lavora con me come volontario. Il suo soggiorno é finito oggi, é ripartito per la Danimarca stamattina. L’augurio piú grande che ha ricevuto da noi é la speranza che non lo perlustrino intimamente in aeroporto.

Laura ed io stiamo lavorando ad un bella iniziativa. Abbiamo scritto un progetto su come insegnare la radio ai ragazzi palestinesi che frequentao le associazioni per cui lavoriamo. Durante le prime due lezioni un gruppetto di circa 10 adolescenti un pó dubbiosi mi aveva dato la sensazione che fossero lí perché costretti da amici e parenti dei responsabili del centro. Dalla terza lezione in poi, quando i nostri hanno dovuto mettere in pratica le poche informazioni che abbiamo dato loro e scrivere un programma radiofonico su un argomento a scelta, Laura ed io abbiamo visto sbocciare la loro a la nostra soddisfazione. Entusiamo e gioia, molto caos e un tasso di partecipazione in aumento. Adesso abbiamo piú di 15 ragazzi e ragazze pronti per registrare professionalmente il loro programma radiofonico. Domani sará il giorno della visita alla radio dell’universitá, nel pomeriggio pronti a registrare con un nuovo mixer. Giovedí invece ce ne andiamo a Nablus, a condividere con i ragazzi del posto le esperienze fatte, all’interno di un progetto finanziato dall’UNESCO che prevede scambi e incontri tra i ragazzi delle due cittá piú estreme della Cisgiordania, non solo a livello geografico.

Pomeriggio di solito cerco di far passare il tempo tra internet e curriculum da inviare. Il lavoro da fare qui al Club non é davvero molto, ma dopo una chiacchierata con Nivin, la responsabile della progettazione, ho avuto carta bianca sulla scrittura dei progetti. Il mio lavoro adesso sará trovare delle idee da realizzare, loro cercheranno i soldi per farlo. Dopo essermi lamentata un pó della inattivitá del Club, ecco che mi ritrovo catapultata nel pieno dei preparativi per il prossimo summer camp. A luglio credo che non avró neanche il tempo di mangiare, e tutto questo proprio nel periodo in cui Igor dovrebbe venire a trovarmi, bien joué.

Le sere variano a seconda che si tratti dei fine settimana o dei giorni lavorativi. I giorni lavorativi sono stati ormai colpiti da un contagio diffuso dal nostro carissimo franco-tedesco. Una sera su due viene infatti spesa a giocare a un gioco di ruolo chiamato Diplomazia, dove ogni giocatore é un paese o un gruppo di paesi che deve sconfiggere i suoi avversari simulando la guerra. Molte ore di sonno perse e molti bicchieri di arak bevuti. Nei fine settimana si sbarca nelle cittá del peccato della West Bank, dove l’alcool non é considerato un biglietto di sola andata per la Jenna (l’inferno islamico). Mi piace sempre incontrare gli altri volontari, hanno sempre delle storie interessanti da condividere. Ma alla fine della serata sento la mancanza di Hebron e voglio tornare a casa, non c’é bottiglia di birra o festa che tenga, perché ormai ana Paola, min lKhalil (sono Paola, vengo da Hebron) .

domenica 21 giugno 2009

Closed Military Zone

Sabato mattina, abbiamo puntato la sveglia alle sei, si va a Beit Ummar dove si terrá una manifestazione di sostegno ad alcune famiglie di contadini di questo piccolo comune del distretto di Hebron. Queste famiglie hanno la sfortuna di possedere alcune terre che si trovano al confine con un insediamento ebraico. Da aprile la corte militare ha stabilito che per questioni di sicurezza i proprietari della terra non possono piú raccogliere ció che hanno piantato.Lo scopo della nostra presenza ad Asaf é proprio quella di consentire ai legittimi proprietari di raccogliere ció che hanno piantato evitando che vengano attaccati dai soldati o dai coloni.

Raggiungiamo il gruppo di attivisti all’entrata del villaggio. La strategia é quella di dividerci due parti, un gruppo rimane nella parte piú bassa, quella piú nascosta agli occhi di militari e coloni, e l’altro gruppo sale verso la collina. In ogni gruppo c’é chi deve occuparsi di documentare l’evento e chi deve aiutare i contadini a raccogliere le foglie di vite, con cui si prepara un fantastico piatto tipico del Medio Oriente. Io decido di fare entrambe le cose.

Saliamo verso la collina, il gruppo di testa é formato da un nutrito gruppo di attivisti israeliani, con l’incarico gravoso di mediare con i soldati e i coloni. Marciamo in un sentiero di campagna per venti minuti buoni. Il nostro approcciarci alla meta viene chiaramente distinto da qualcosa che non vediamo chiaramente ma che diverrá chiaro nei cinque minuti successivi. Un gruppo di coloni scende giú dalla collina urlando versi incomprensibili. La scena sembra tratta da uno di quei film sulle invasioni barbariche. Ragazzi con il volto coperto vengono giú correndo e urlando, tirando pietre nella nostra direzione. Vediamo bidoni di latta rotolare giú, come gesto del disprezzo estremo che queste persone chiuse nella loro arroganza e nelle loro violenza mostrano nei confronti del resto del genere umano.

Io e la mia coinquilina spagnola rimaniamo basite. Prima di procedere cerco di inquadrare con lo zoom della fotocamera la scena per verificare che i coloni non abbiano dei fucili. Non sono armati, andiamo avanti. Le contrattazioni vanno avanti per mezz’ora. Gli attivisti mostrano ai militari un documento delle autoritá israeliane che dichiara illegale l’uso del termine “area militare chiusa” in zone agricole, in quanto questa ha il solo effetto di danneggiare l’economia palestinese. I militari a loro volta ci mostrano la decisione della corte militare, che ha dichiarato l’area “closed military zone”. Nel frattempo raccogliamo le foglie, ascoltando increduli i versi deumanizzati di questo gruppuscolo di ragazzini cresciuti nella convinzione che questa terra appartiene loro per decisione divina.

Il braccio di ferro con i soldati é durato abbastanza, stando alle parole degli attivisti di vecchia data. Decidiamo che é tempo di andare. Il gruppo si ricongionge con l’altro e partiamo verso il nostro punto di incontro. E’ in questo momento che i militari israeliani pensano bene di tronare a casa con un bottino di almeno qualche arrestato, e perché no proprio il proprietario della terra, che ha anche la colpa di aver filmato e documentato tutto. I militari si gettano su di lui per portarlo via, ma fortunatamente gli attivisti israeliani fanno scudo e si gettano a terra per proteggerlo. Qui comincia lo scontro tra il gruppo e i militari, che non risparmiano ai piú audaci tra di noi qualche bella manganellata data con il manganello di legno, senza l’optional della gomma che di solito lo ricopre per attutire il colpo.

Alla fine della giornata nessun palestinese é stato arrestato, come nessun israeliano. Hanno portato via tre degli attivisti, che verranno rilasciati dopo qualche ora con l’obbligo di non tornare a Beit Ummar per le prossime tre settimane.

lunedì 15 giugno 2009

Primi dubbi sulle missioni internazionali

Venerdì sera, siamo invitati al barbeque organizzato dai membri del TIPH (Temporary International Presence in the City of Hebron), il corpo di osservatori internazionali di Hebron. Il TIPH venne istituito nel 1994 per volere del Consigio di Sicurezza delle Nazioni Unite a seguito del massacro nella moschea di Abramo, perpetrato da un ebreo estremista che uccise 29 musulmani che si trovavano all’interno al momento della preghiera. La comunitá internazionale decise allora di istituire una forza mista tra civili e militari per garantire una certa sicurezza ai civili palestinesi. Israele e l’Autoritá Palestinese scelsero ciascuno tre paesi: Italia, Turchia, Svizzera, Norvegia, Svezia e Danimarca. Ufficialmente il TIPH entra in funzione nel 1997.

Il quertier generale si trova in un posto lontano dal centro storico, dove i membri del TIPH svolgono il loro lavoro. Il posto in cui vivono é davvero esclusivo, entriamo e siamo accolti con le prime misure di sicurezza: tesserino di entrata in cambio dei nostri passaporti. L’albergo é fornito da ogni tipo di servizi, vedo passare dietro di me un ragazzo in pantaloncini e maglietta evidentemente sudato, quindi deduco che devono avere anche una palestra.
Il team italiano ci accoglie, scopro piú tardi che gli italiani sono tutti appartenenti alle forze dell’ordine, cosí come i turchi. Ci fanno fare un giro del posto, al piano terra hanno una biblioteca e un centro che dovrebbe servire da centro di informazione. Ai piani superiori ci sono le camere, il risporante, la cucina, la terrazza. Il complesso é davvero grande, e ospita lussuosamente solo 64 persone.

Tutti sono davvero ospitali con noi, sono contenti di avere delle nuove persone con cui parlare. La lamentela principale nei corridoi riguarda la totale assenza di privacy e la freddezza dei membri scandinavi. Questo gruppetto di europei simpatici sembra per loro una boccata di aria fresca.
La serata di stasera é organizzata dal team danese, molta carne e ottimo cibo. Finalmente possiamo avere qualche birra e un bicchiere di vino senza lasciare Hebron e andare a comprare l’alcool a Betlemme.

Tutto qui intorno peró mi sembra finto e lontano dalla realtá in cui viviamo ogni giorno. La neutralitá forzata ha un sentore di inutilitá, un asetticismo utile alla coscienza di molti ma inutile alla vita di ogni giorno dei palestinesi.
Non so quale sia l’effetto del lavoro di queste persone sulla sicurezza dei paestinesi. Il compito principale dei membri del TIPH é osservare. In caso di infrazioni, che in questa cittá significa sempre abuso e violenze, l’unica cosa che possono fare é scrivere reports e inviarli ai paesi membri oltre che alle autoritá competenti in Israele e in Palestina. Quello che mi chiedo é se era davvero necessario istituire un punto di osservazione internazionale su un conflitto cosí complesso che ha il solo compito di monitorare e scrivere. Quanto anche é impossibile non riconoscere l’importanza dell’informazione, che ne é di queste violazioni, cosa succede all’informazione se semplicemente in Europa nessuno conosce la situazione che si vive ogni giorno a Hebron, cosa ne é della dignitá di tutti quei palestinesi costantemente paragonati a terroristi su cui sembra gravare la colpa per ogni misfatto commesso contro di loro. A cosa serve la presenza di questo corpo di osservatori se la realtá é costantemente distorta.
E’ con questi dubbi che lascio il TIPH, dopo un piacevole serata in compagnia di questi militari in vacanza.

domenica 14 giugno 2009

Il campo di Aroub

10/06/2009

Oggi sveglia di buon ora e visita al campo rifugiati di Aroub, tra Hebron e Betlemme. Al nostro arrivo un nugolo di bambini di ogni etá ci circonda, sfoderando tutte le loro conoscenze linguistiche. I piú intraprendenti ci chiedono gli indirizzi e-mail, tra i rimproveri un pó sornioni e complici di qualche adulto che passa da lí. Il grande evento della giornata per loro sembra essere questo gruppuscolo di europei piovuti da chissá dove. Nelle loro domande c’é la curiositá di sapere da dove veniamo e che ci facciamo nel campo.
Dopo aver manifestato il loro entusiasmo per il Barcelona ed il Real Madrid, ci chiedono quando finiremo la visita, ci volgiono rincontrare, abbiamo fatto colpo.

Incontriamo Ahmed, il responsabile della municipalitá del campo. All’inizio é un pó scettico, non saremo né i primi né gli ultimi a presentarsi con un bel sorriso ingenuo e volenteroso davanti alle porte blu dell’UNRWA. Ci dice come si vive nel campo: c’é una clinica con un solo dottore che si prende cura dei 9000 rifugiati del campo e degli 11000 abitanti dei villaggi intorno. Per la cura delle anime invece, il campo ha ben due moschee. Il complesso del municipio é incredibilmente bello e íncredibilmente vuoto. Diviso su due piani, troviamo due stanze per le feste e gli eventi. Dal tetto vediamo le due piscine, entrambe per i ragazzi, non avendo ancora fatto la copertura le ragazze non possono usarle. Adesso sono vuote, dopo gli esami potranno essere usate dalle migliai di bambini del campo.

Ci offriamo di lavorare con loro una volta alla settimana. Anche qui cominceranno i summer camps e hanno bisogno di volontari per stare dietro ai bambini. Ahmed ci propone anche di collaborare con lui per la ricerca di fondi all´estero per finanziare i loro progetti. Ce ne andiamo entusiasti, ci sentiamo utili.